The Bird Cage

 

Loie Fuller alle Folies Bergere. Toulouse-Lautrec, 1893

Era una lucente mattina di maggio, il borsone era pronto, gli stivali erano ai piedi e il serbatoio era stato riempito la sera prima.

Lotti e William salirono in sella alla vecchia V-Star rosso carminio e iniziarono il loro viaggio attraversando terre desolate e percorrendo strade che si innestavano tra monti e deserti. Andavano alla scoperta di luoghi remoti e di antica memoria, luoghi rimasti quasi inesplorati, abbandonati a se stessi, ma custodi di un tesoro storico non riconosciuto a sufficienza.

La loro voglia innata di esplorare, custodita all’interno di uno scrigno fatto di fanciullesca curiosità, dava sempre loro un buon motivo per svegliarsi la mattina e mordere più asfalto che potevano, ogni qualvolta se lo potevano permettere.

Quel giorno avrebbero visitato una piccola e antica città che doveva la sua fortuna alla scoperta di una miniera, oltre che all’estro creativo dei suoi abitanti che ne fecero in poco tempo un gioiello dell’intrattenimento libertino.

Si misero in marcia con trepidazione e grande entusiasmo.

Quando sul finire del tramonto avvistarono un vecchio cartello di legno mangiucchiato dal marciume sulla sommità, capirono di essere giunti a destinazione. Su di esso il nome della città non si leggeva più, si intravedeva parte della scritta Benvenuti e poi qualcos’altro, difficile da decifrare, in calce.

Appena messo piede nel confine cittadino, si palesò loro uno scenario che aveva un nonsoché di onirico. Il silenzio era surreale, spezzato solo dal canto dei grilli nelle campagne limitrofe. L’unica persona che videro fu un vecchio uomo dondolare su di una sedia posta vicino l’ingresso di un fatiscente locale.

Lotti e William fermarono la moto proprio dinanzi a lui chiedendogli informazioni per un alloggio.

Il vecchio si alzò con fare svogliato e li invitò a seguirlo all’interno. Quel posto aveva di certo visto tempi migliori, il pavimento scricchiolava al solo accenno del passo e l’arredamento, forse di recupero, ricordava con entusiasmo il secolo precedente.

“Benvenuti al Sagebrush”, disse porgendo loro la chiave di una camera.

Lotti si mise ad osservare quel vecchio dalla spalla ricurva e dalle gambe che dal cavallo al tallone si inarcavano fino a formare una O. Portava gli speroni, il cappello di pelle di vitello a tesa larga sembrava mangiato dai topi e la sua barba emanava un forte odore di tabacco.

“C’è un posto dove poter mangiare?”, chiese William.

“Sì, in fondo alla strada c’è Holliday. Ditegli che siete miei ospiti, vi tratterà bene”.

Il vecchio tornò a sedersi sulla sedia a dondolarsi e a masticar tabacco.

I due si avviarono verso il locale indicato dal quel bizzarro individuo. Le strade, tutte di terra battuta, erano deserte e malamente illuminate. Non vi era ombra di modernità, non un’auto, una bici o un’insegna al neon. Solo strade polverose incorniciate da vecchi edifici di legno.

Raggiunto il locale portarono all’oste il messaggio del vecchio locandiere.

“Benvenuti!”, disse con gaudio Holliday offrendo loro il primo giro alcolico.

William si lasciò andare col secondo fine di capire qualcosa di più su quel vecchio uomo: “Certo che quel tuo amico è davvero strano, sembra arrivato direttamente dall’800”.

Holliday sorrise: “Infatti”.

I ragazzi seguirono quella risatina convinti della buona fede dell’oste. Intanto che si muoveva con agilità al di là del bancone servendo i clienti, la luce delle candele, che descriveva un ambiente soffuso e sottotono, quasi intimo, non gli donavano ombra.

“Il vecchio Ed è una povera anima persa. Un po’ come tutti noi. – continuò – Non sarà mai pronto ad abbandonare la sua creatura. Ma d’altronde nessuno di noi lo è”, seguitò a sorridere.

Lotti e William non compresero a cosa volesse alludere, l’aspetto di quell’uomo dal colletto ben inamidato sopra al panciotto dal cui taschino pendeva la catenina dell’orologio, non ispirava loro fiducia né tantomeno li dava sentore di lucidità. E poi, perché un oste dovrebbe indossare panciotto e orologio, proprio non se lo spiegavano.

Holliday si sentì osservato: “Che c’è? Mi sono forse macchiato il panciotto?”, diresse subito lo sguardo sul suo addome per accertarsene.

“No, no”, rispose Lotti imbarazzata.

“Ho capito. – seguitò, socchiudendo gli occhi e alzando il mento – Ero un medico. Poi i miei servizi non furono più richiesti e mi sono improvvisato oste. Ma quel brutto grembiule non lo indosserò mai! – lo indicò con disgusto – Ci tengo al mio aspetto”, si sfregò un baffo tra indice e pollice.

Lotti gli sorrise con freddezza e poi sussurrò all’orecchio di William: “Mi sa che questo qui ha perso qualche rotella”.

William annuì.

La conversazione con l’oste non proseguì oltre, i due ragazzi finirono la loro consumazione e tornarono in strada.

D’un certo punto essa, avvolta dalla penombra della luna, iniziò d’improvviso ad animarsi di persone e carrozze, Lotti e William si ritrovarono come catapultati in un epoca diversa. Sulla loro pelle ora scorreva quel lieve brivido dettato dal sentimento che speravano di trovare.

Sembrava che lo stile di vita dei tempi d’oro di quei luoghi stesse prendendo forma, ogni edificio voleva raccontare la sua storia e ogni angolo di quella piccola cittadina aveva qualcosa da dire.

Si convinsero che la scelta di esplorare quel luogo remoto fu azzeccata, e in preda all’entusiasmo iniziarono ad andare da un marciapiede all’altro, da un edificio all’altro, spiando attraverso le finestre, osservando gli abitanti e ascoltando le loro chiacchiere.

D’improvviso vennero speronati da un cavaliere in fuga e due uomini armati che lo inseguivano. Una donna dall’aspetto bohemien, resasi testimone del fatto, andò loro incontro offrendo il suo aiuto.

“Ma cosa diavolo sta succedendo?”.

“Non badate a loro, sono ragazzacci, piace inseguirsi e diffondere panico. – rispose la gentile signora – Da questa parte, venite”.

La signora accompagnò Lotti e William dall’altra parte della strada e li invitò ad entrare nei suoi locali attraverso un piccolo ingresso dall’aspetto fatiscente.

Lotti si guardò attorno, ovunque vi erano pesanti drappi, le pareti erano ricoperte da carta da parati, in alcuni punti stracciata e in altri logorata dai chiodi di foto e di quadri appesi fin quasi al soffitto.

La signora li guidò attraverso un angusto corridoio nel quale si iniziava ad udire della musica e le grida di una folla in festa. Alla fine di questo si rivelò, avvolta dalle fiamme delle candele, la platea di un piccolo teatro.

Sul perimetro erano posti dei tavoli dove molti uomini erano intenti a bere e giocare a carte. Sopra i palchetti, gente vestita con un po’ più di eleganza si intratteneva osservando le ballerine sul palco, ai cui piedi un vecchio pianoforte sgangherato suonava musica honky-tonk.

Il loro primo pensiero fu quello di essere capitati in una bisca clandestina adornata da facili costumi, tant’è che come William volse lo sguardo si ritrovò circondato da sottane e macramè.

Chi gli offriva dei sigari, chi insisteva per un poker, chi lo invitava con cortese prepotenza a seguirla ai piani inferiori per donargli un po’ di ‘svago’. Lotti, infastidita da così tanta veemenza, lo tirò a sé con fare deciso e sguardo irritato. Fu allora che tutte assieme si allontanarono dalla coppia con passo svelto, come se fluttuassero sul vecchio parquet annerito, emettendo noiosi gridolini.

Le voci in quel luogo riecheggiavano come in una scatola di latta e anche al di là delle quinte si udivano grida e risate mantecarsi e tramutarsi in isteria. I ragazzi iniziarono a sentirsi a disagio e a desiderare di voler fuggire da quel luogo, ma la padrona di casa lo impediva, chiedendo loro di unirsi alla festa e di lasciarsi andare.

“Tanto tra poche ore tutto svanirà”, disse sorridendo e danzando.

I due si guardarono dubbiosi, tutto quel marasma continuava a non farli sentire a loro agio, ma le insistenze della loro ospite furono talmente tante che si sentirono costretti ad accettare.

Si sedettero quindi ad un tavolo dove subito dopo vennero raggiunti da altri tre uomini e altrettante donnine. Gli uomini presero posto e le donnine sulle loro gambe. Ebbe inizio una partita di poker alla quale William cercò di sottrarsi dichiarando di non saper giocare.

“Meglio per noi, no?”, disse ridendo grassamente uno di loro.

Le carte vennero distribuite e il whiskey venne servito. Bevvero talmente tanto da stramazzare al suolo ubriachi senza nemmeno accorgersene.

Quando rinvennero la bolgia della festa era andata scemando, gli uomini ben vestiti che alloggiavano i palchetti erano scesi in platea e si stavano intrattenendo con alcune signore, mentre il pianoforte strimpellava sempre meno.

Facendo attenzione a non essere visti dalla padrona di casa, che nel frattempo non si trovava più, uscirono di corsa da quella gabbia di matti e tornarono alla locanda.

“Ora capisco perché si chiami Bird Cage. Sono tutti matti là dentro!”.

“Altro che le rotelle dell’oste! Quello a confronto è perfettamente sano di mente!”, aggiunse William abbracciando Lotti, come a volerle fare da scudo semmai qualcuno fosse uscito per rincorrerli.

Tornati alla locanda, trovarono il vecchio che ancora si dondolava sulla sedia, con la barba ingiallita dal tabacco e la sputacchiera ai suoi piedi.

“Vi siete divertiti?”, chiese con presuntuosa ironia.

I due non sapevano cosa rispondere: “Glielo saprei dire se non fossi svenuto sul pavimento”, rispose William celando la sua indisponenza.

“Oh sì, allora! – rise – Sì, che vi siete divertiti!”.

Decisero di ignorarlo, ne avevano abbastanza, la serata era stata fin troppo agitata e controversa. Andarono in camera e ne uscirono solo il giorno dopo, quando il sole era ben alto. E di questo se ne vollero assicurare, sbirciando più volte al di là delle persiane corrose dal tempo.

Di gran lena infilarono tutte le loro cose nel borsone e corsero giù per le scale.

“Un saluto veloce, ok? Diciamo grazie e scompariamo”, Lotti non vedeva l’ora di lasciare quel posto che sembrava essere dannato.

L’atrio della locanda era vuoto, del vecchio uomo e del suo agre odore di tabacco non vi era indizio. Uscirono per strada e anche questa era di nuovo deserta, fatta eccezione per un uomo con un carretto trainato da un cavallo, intento a pulire lo sterrato.

“Mi scusi, – esordì William – ha per caso visto il proprietario?”.

Lo spazzino si appoggiò con il gomito alla sua scopa di legno e saggina e iniziò a ridere come un matto: “Chi? Ed?”.

“Sì, credo si chiami Ed”.

“Avete passato la notte in città?”.

“Sì”.

“E magari siete anche andati ad ubriacarvi al Bird Cage?”.

“Beh, sì, ma…”.

Lo spazzino non riusciva a smettere di ridere.

Lotti sbroccò: “Ma insomma! Ci vuole spiegare cos’è che la fa ridere così tanto?”.

L’uomo si calmò, cambiò posizione rimanendo però sempre appeso alla scopa.

“Vedete, tutte le persone che avete incontrato al Bird Cage, non esistono”.

“Che cosa vuole dire?”.

Lo spazzino posò la scopa e si sedette sulla sedia a dondolo: “Ed, il vecchio con il quale voi dite di aver parlato ieri sera, fondò questa città nel 1879, ma ora non ci abita più nessuno. Soprattutto lui, non credete?”.

“Ma… ma Holliday! Lui… lui ci ha detto che Ed non aveva intenzione di lasciare la città”.

Lo spazzino li guardò di sottocchio: “Cos’è che vi ha detto con esattezza?”.

William ci pensò, era certo di poter ricordare le parole esatte: “Il vecchio Ed è una povera anima persa... Non sarà mai pronto ad abbandonare la sua creatura... Ma d’altronde nessuno di noi lo è”.

“Nessuno di loro è mai andato via veramente. Questa città morì lentamente, poco a poco, con l’esaurirsi della miniera d’argento che lo stesso Ed scoprì più di 140 anni fa. I vivi andarono via per tempo, alla ricerca di fortuna altrove, ma i morti… essi sono rimasti. Sono intrappolati qui e forse è grazie a loro che questa piccola città, seppur vecchia e logora, non cade giù”.

Lo spazzino si rimise in piedi, recuperò la sua scopa e, spazzando con delicata cura la strada, si allontanò assieme al suo carretto.

Lotti e William si misero a cavallo della moto e partirono. Giunti al confine si fermarono e volsero un ultimo sguardo alle loro spalle, l’uomo col carretto era svanito e sul fatiscente cartellone la scritta in calce era più leggibile: La città dura a morire.

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