All Hallows' evening

 

Il silenzio. Johann Heinrich Fussli, 1799-1801

Nel salotto avvolto dalla luce giallognola di una vecchia lampada da tavolo, un surreale silenzio era rotto dal volume del televisore.

Seduto sulla poltrona infeltrita, un vecchio brontolone faceva finta di guardare lo schermo, intento a trovar nella sua testa un momento di raccoglimento, prima che finisse per scoppiargli il cervello. Fino a che un rimbombare di nocche sul legno venato della sua porta lo rianimò da quel letargico approccio.

Al di là dell’uscio Dracula, Frankenstein e una mummia, aprirono lesti i loro sacchetti urlando: “Dolcetto o scherzetto?”.

L’uomo, dagli zigomi cadenti e le spalle ricurve, brontolò e sbuffò, tant’è che il lungo baffo gli svolazzò all’insù. Con fare scocciato allungò la mano rugosa verso la ciotola piena di caramelle e cioccolato e lasciò che quegli omini ne facessero razzia a loro piacimento.

“Vi verrà il diabete! Stupide pulci!”, borbottò.

Ma i tre erano ormai corsi a caccia della prossima scodella di dolci, e i suoi lamenti, come ogni anno, finirono nel vento.

“Andate via! Tornate a casa! Alla vostra età io ero già sotto le coperte a dormire!”.

Chiuse la porta senza fermare la lingua: “Oh, ma che ne sapete voi che vi abbuffate di schifezze e sulla vostra tavola i pasti abbondano senza aver mai faticato un giorno?”.

Andò in cucina a prendersi una birra e tornò a sedersi sulla sua poltrona. In un impeto di cieco nervosismo, alzò ancor di più il volume della televisione nella speranza di spaventare quelle insane creature e farle correre via.

“Non c’è pace! Non c’è pace! Ma perché questo dannato giorno non viene cancellato dal calendario una volta per tutte?”, la rabbia gli gonfiava le vene del collo.

Tracannò la birra quasi tutta d’un fiato, nella speranza che gli desse un po’ di sollievo emotivo. Complice quel gesto avventato, complice lo schermo della tv un po’ ballerino, il vecchio brontolone si addormentò. La bava dall’angolo della bocca scivolò sulla camicia ricoprendogli la spalla destra, mentre la mano, abbandonandosi, lasciava cadere la birra sul pavimento.

Preso da un sonno tanto profondo quanto improvviso, non badò più agli schiamazzi, le urla e gli scherzi che animavano il viale, la lampada da tavolo iniziò a lampeggiare fino a fulminarsi, sullo schermo del televisore apparve un ronzio in bianco e nero.

Nel sonno, il vecchio iniziò a tremare, il suo respiro emanava sbuffi di vapore che si raffreddavano in aria per ricadere giù in brina. Incrociò le braccia alla ricerca di un po’ di tepore sul petto il quale andava stringendosi sempre più, fino a quando la gabbia toracica spremette i polmoni a tal punto da soffocarlo. Sentì come una morsa che gli stringeva il torace e quella sensazione, al suo tatto più che vera, lo svegliò facendolo sobbalzare con un urlo diaframmatico.

Con affanno, boccheggiando, inciampando, si diresse verso la finestra. Nell’enfasi di aprirla butto in terra la lampada il cui tonfo riecheggiò come tra le rocce di una gola; rivolse lo sguardo verso quell’eco, ma non riuscì a vedere null’altro che il nero.

Si brigò a sporgersi al di là del parapetto e aprì la bocca, la spalancò, per riempirla con più aria che poteva, aria che però non sentiva scendere dentro i polmoni.

Con la stessa fretta, si arrampicò sulla finestra, scivolò ferendosi una gamba e per parare la caduta affondò di faccia nella neve, il freddo pervase la sua epidermide costringendolo in un abbraccio pungente con la pelle d’oca.

Fuori non c’era più nessuno, sembravano tutti svaniti nel nulla, regnava ora il silenzio tanto bramato, la neve, che prima non c’era, scendeva lenta da un cielo nero e profondo che sembrava non esistere.

“Ma quanto ho dormito?”, si chiese.

La torre dell’orologio segnava le ventidue e trenta, nonostante la quantità di neve e l’oscurità facessero presupporre tutt’altro.

Si guardò intorno, tutto taceva, si incamminò nel mezzo della strada, tutto era statico, sigillato nel tempo. Una nebbia scendeva infittendosi, l’orizzonte non era più visibile, le case, la strada, il cielo, non si distinguevano più. Un bianco umido e filamentoso avvolse tutto quel nero.

Un suono stridulo spezzò il silenzio, un lampo di luce trapassò il muro bianco e lanoso, il vecchio si arrestò piegato sulle ginocchia, abbracciandosi il torace ancora dolente e affamato, le sue nodose giunture tremavano e faticavano a tenerlo in piedi. Poi la nebbia si infittì e il silenzio ritorno. Il vecchio si fece coraggio e procedendo di punta e di tallone, di tallone e di punta, oltrepassò il lanoso confine.

Un suono stridulo di nuovo spezzò quel silenzio angosciante ed il lampo trafisse il biancore della nebbia e gli occhi del vecchio, che cadde in terra accecato. Urlò disperato, le sue corde vocali si inspessirono quasi fino a rompersi, nessuno lo sentiva; egli urlava e urlava ruotando nervosamente la testa a destra e a manca, sbattendo i piedi in terra, ma nessuno rispondeva.

Andò avanti finché la voce gli reggette, poi si abbandonò al suo destino: “Muoio così? – dichiarò singhiozzando e tremando – È così che muore un servitore della patria? In terra, sgolandosi, perso nell’oscurità della più dannata notte? Piangendo? Me ne vado piangendo? Non mi si addice! Io merito trombe e sfilate! La mia salma dovrebbe essere onorata in processione come si comanda ad un eroe!”.

Un’arcigna risata si sentì in lontananza: “Ti definisci eroe? Oh, ma che bell’eroe! – la voce rimbombava nel vuoto come una eco – Accidioso, egoista e vanesio. Sono queste le qualità di un eroe?”.

“Chi sei? Dove sei?”, disse rotolandosi per terra.

“Chi sono non importa più, ancor meno dove sono. Faresti meglio a chiederti perché sono”.

Il vecchio, in preda ad un terrore mai provato nemmeno al fronte, continuava a girare come una trottola per scovare l’entità di quella voce spigolosa.

Un’ombra si avvicinò a quel bitorzoluto corpo e gli si chinò dinanzi: “Io sono ciò che tu non vuoi. Sono quella parte di te che rinnegasti anni fa in favore di ciò che ora sei”.

L’ombra lo guardò da capo a piedi con aria disgustata: “E che cosa sei? Sei meno di me. Un vecchio ramo d’albero annodato su se stesso non più in grado di dare frutti. Non sei buono nemmeno come legna da ardere, tu”.

Il vecchio vedeva qualcosa muoversi davanti ai suoi occhi, ma faticava a definirne i lineamenti. Un lesto movimento dell’ombra fece lampeggiare il cielo perché egli potesse vederne la sagoma.

Vide una lunga cappa nera nel cui cappuccio due occhi si illuminarono per un breve attimo, facendo intuire la forma aquilina del naso e gli zigomi cadenti.

L’uomo si ritrasse sgusciando all’indietro, con i piedi che non trovavano presa sul terreno. L’oscura figura gli si avvicinò fino a poter toccare naso con naso, i suoi occhi limpidi e grandi, lo scrutarono senza tregua, il suo respiro si fermò perché egli non potesse approfittare della sua aria.

Gli occhi del vecchio, spenti e piccoli, non riuscivano a staccarsi da quello sguardo né tantomeno poteva chiudere le palpebre per sottrarsi di sua propria volontà a quel tormento.

La lunga e nera cappa accennò un movimento ed il vecchio sobbalzò, all’interno del tetro cappuccio si vide il bianco di un cinico sorriso: “Boo!”, esclamò d’un tratto.

L’uomo ricominciò a voler sgattaiolare all’indietro, senza riuscirci.

Una risata sollevò l’oscura figura dal corpo dello sventurato: “Accidioso. Egoista. Vanesio”.

L’uomo per quanto si sforzasse non comprendeva il significato di quelle parole e fu inutile chiederne spiegazioni, perché quella figura andava ingrandendosi fluttuandogli intorno ed echeggiando suoni di sinistra memoria.

“Cosa vuoi?”, provò a chiedere.

Quegli occhi, limpidi e grandi si manifestarono nuovamente ad un solo centimetro dal suo volto e, sgranati, immobili, tornarono a fissarlo scuotendo in lui le corde del terrore, colmando il dubbio che quello fosse un viaggio dal quale non avrebbe fatto ritorno se non in una cassa da morto.

“Tu sei la morte che mi inganni col colore vivido dei tuoi occhi per portarmi con te. Ma io non verrò. Lo sai, io non verrò!”.

La nera figura ridendo grassamente ricominciò a fluttuare: “Davvero non mi riconosci? Magari fossi io la Morte, ma purtroppo non mi è dato di ucciderti o di farti male alcuno. Posso solo portarti ricordi”.

“Quali ricordi?”.

“I ricordi che tu non hai più, quelli che hai deciso di sacrificare in onore di una vita di rabbia e pusillanimità”.

“Perché mi additi con questi termini?”.

“Perché sono quello che sei!”.

“Non capisco! Non capisco! Io volevo solo prendere un po’ d’aria! Non respiravo!”.

“Ebbene aria ne hai respirata abbastanza. Ora devi venire con me”.

Una mano ossuta e rugosa si sporse da dentro il lungo mantello invitando il vecchio ad alzarsi, ma questi si rifiutò più e più volte, affondando le dita nella neve perché potesse trovare appiglio. La mano lo prese con prepotenza e lo sollevò da terra, lo trascinò a sé e tenendogli il braccio come si usa con un prigioniero, lo accompagnò nella direzione che esso credeva opportuna.

Il vecchio si dimenava come meglio poteva senza raggiungere nessun risultato, se non un gran dolore ad ogni singolo strattone.

Contro la sua volontà decise di sottomettersi al volere di quell’oscura figura, nella convinzione di poterla battere di astuzia: “Tanto lo so che sei tutto un sogno. – sogghignò – Lo so che sei solo frutto della mia immaginazione, perché io ora sto dormendo, sulla mia poltrona, ubriaco fradicio. – continuò a sogghignare – Sono ubriaco, ecco perché sto avendo gli incubi!”.

L’ossuta mano strinse la presa ed il vecchio urlò.

“Ne sei convinto? A me il tuo dolore pare più che reale”.

“No! No! Sto sognando! Te lo dico io che questo è tutto un sogno!”.

“Ma certo, perché tutto quello che esce da quella fogna che è la tua bocca è sacrosanta verità. Non è così? Non la pensi ancora così?”.

Ad ogni punto di domanda seguiva uno strattone al suo braccio.

L’oscura figura lo accompagnò fin dall’altra parte della città, in un parco giochi animato dagli schiamazzi e le risate di bambini, tutti presi dalla loro attività ludica.

L’uomo, invitato con la forza, osservò quel che succedeva: “Non è possibile! Questo parco giochi fu ridotto in cenere tanto tempo fa. Non fu mai più ricostruito”.

“Ma non è vero, – rispose l’oscura figura – è proprio qui dinanzi ai tuoi occhi”.

“No! No! Non è vero! Non esiste più!”, il vecchio volse lo sguardo altrove.

Ma l’oscura figura gli forzò il mento nella direzione giusta: “Guarda! Guardali tutti, uno ad uno. Li conoscevi, eppure sei andato avanti”.

L’uomo osservava quei bambini rincorrersi ridendo e piangeva senza saperne il perché.

“Non te lo ricordi, vero?”.

“Cosa dovrei ricordare?”.

L’oscura figura indicò un giovane uomo che spingeva un bambino sull’altalena: “Quello lì”.

“Chi è?”.

“Sei tu!”.

“No, non può essere. Io sono qui ora, non posso essere lui. È troppo giovane per essere me!”.

“Suvvia, fai un piccolo sforzo”.

L’oscura figura, senza che il vecchio se ne accorgesse, lo lasciò solo con i suoi perché e i suoi ricordi cancellati. La morsa dolorosa di quell’ossuta mano era sparita, ma la sua mente non ci fece caso, tant’era presa dall’osservare quel giovane intento a spingere l’altalena.

Si accasciò al suolo e, seduto sulle ceneri del parco giochi, vide dinanzi a sé manifestarsi una grande palla di luce. Vivida com’era essa inghiottì tutta la nebbia e tutto il nero, travolse il parco giochi e travolse i suoi occhi. Così come apparve, poi scomparve e i fiocchi di neve divennero neri.

Il vecchio aprì a favore il palmo della mano e lasciò che un piccolo fiocco si posasse su di esso. Era leggero e sottile, di un grigio molto scuro, era caldo ma non bruciava ed era fragile, così fragile che il solo posarsi sul suo palmo lo dissolse in piccolissime briciole.

Alzò lo sguardo verso il cielo, ancora nero e senza fine, la cenere pioveva sul suo volto così come sul suo corpo e su tutto ciò che era intorno a lui. Un flebile ricordo, come la punta di un pugnale, gli bucò il cranio, le lacrime iniziavano a bruciare come tizzoni roventi e la cenere iniziò a piovere nella sua bocca annerendogli i denti e togliendogli il respiro, così come fece il suo torace.

Egli passò tutta la notte seduto sul ciglio del parco giochi, piangendo, ricordando e soffocando.

Poco prima dello giungere dell’alba, la figura avvolta nella lunga cappa nera fece ritorno. Essa non parlò, si pose alle spalle del vecchio uomo e aspettò. Egli la sentì arrivare, esattamente allo stesso modo di come si sente la propria ombra seguire. La sua bocca era adesso piena di cenere, le sue lacrime gli avevano bruciato gli zigomi tatuandogli due lunghe righe nere discendenti, la testa gli faceva male, sentiva la punta di quel pugnale spingersi sempre più in fondo.

“Ora ricordi?”.

“Fui io?”.

“Fosti tu”.

“Perché?”.

“Per la gloria”.

“Di chi?”.

“Tua”.

“Ma io di gloria non ne ho”.

“Troppo tardi”.

“Ma perché?”.

“Perché ti venne fatta una fatua promessa alla quale tu credesti senza equivoco. Cosa ne hai avuto?”.

“Accidia. Egoismo. Vanagloria”.

“Esatto”.

“Ma non mi hai detto ancora tu chi sei”.

“Sono la parte di te che hai rinnegato. Sono il tuo zelo, sono il tuo altruismo, sono la tua modestia”.

“Non ebbi nulla”.

“Non avesti nulla se non te stesso”.

“Ho mai vissuto?”.

“Mai”.

“E adesso”.

“Adesso è giunta la mia ora”.

“La tua?”.

“Sì, la mia. Tu di ore ne hai avute sin troppe”.

L’oscura figura gli si avvicinò rimanendo in piedi, con un leggero tocco di mano aprì il suo mantello e avvolse il suo ospite. Nello stesso frangente il sole spuntò ripulendo una volta per tutte il cielo e la terra della nebbia, dal nero e dalla cenere.

Sulla vecchia poltrona infeltrita il suo corpo giaceva, dimenticato e mai pianto.

Commenti

Post popolari in questo blog

Cenere

Sorrow

Lepre in salmì

Come il sole di mezzanotte

Autunno

Filastrocca d'autunno

The Bird Cage

Lo specchio del tempo

Il viaggio

Dell'eterno amore