Il viaggio

 

Stati d'animo: Gli addii. Umberto Boccioni, 1911

Con la calma e il passo felpato che si addice a chi non teme che il tempo gli sfugga dalle dita, un viaggiatore si recò in stazione.

Era una mattina di inizio primavera, l’aria era ancora fresca dall’inverno che andava scemando, ma frizzante al punto giusto. I ciliegi iniziavano la loro rituale fioritura, imitando la neve e rendendola invidiosa. Le pozzanghere si andavano asciugando, mentre il sole si faceva ogni giorno sempre più rosso.

L’attesa in stazione fu inconsuetamente lunga, ma non se ne crucciò. Era nel suo ambiente, tra il carretto delle merende, il facchino affaccendato e gli annunci garbati dell’altoparlante che echeggiava da un pilastro all’altro.

“Non in tutto il mondo si può vantare una stazione ferroviaria così ben organizzata ed educatamente caotica”, disse sorridendo ad un vicino di attesa.

Il vicino sorrise a sua volta, protetto dalla tesa del cappello.

Temendo di aver invaso la sua privacy, chiese scusa con un accenno d’inchino. Proprio in quel mentre, le porte del treno si aprirono, aiutando quindi il viaggiatore a togliersi dall’imbarazzo di quel risicato sorriso ricevuto.

Una volta sistemato il bagaglio, prese posto su di un’ampia e comoda poltrona di prima classe, di fianco al finestrino destro, grande e perfettamente terso.

Fu un gran bel cambiamento, da quando in seconda classe doveva sedere gomito a gomito con degli sconosciuti e strofinare il vetro con la manica per poterci vedere attraverso.

Il posto di fianco a lui rimase vuoto. Il signore con il quale tentò di instaurare una fugace conversazione nell’inganno dell’attesa, proseguì oltre, con la sua ventiquattrore, che mostrava con orgoglio gli anni di lavoro ed esperienze.

Il treno partì lento, lasciò la stazione e fischiò intanto che accelerava, metro dopo metro, fino a sentirlo filare sulle rotaie senza il minimo attrito.

Il panorama fuori era variopinto, si passava per i fitti alberi delle immense foreste fino a sfiorare i bucolici paesini con le loro case d’epoca, simili ad un’illustrazione per cartoline.

Alberi e case sfrecciavano via con rapidità, mutando le loro forme in semplici linee di colore, come fosse un’opera futurista.

Lasciò che il suo sguardo si perdesse al di là del vetro, ingannando così l’attesa e assecondando i pensieri con misura di pace.

Il viaggio non sarebbe stato molto lungo, non che avesse fretta di arrivare, era talmente tanto a suo agio che avrebbe potuto desiderare che durasse per sempre, ma la ragione della sua destinazione aveva facoltà di tenerlo sulle spine.

 

Di punto in bianco: “Permette?”.

Si riappropriò dello sguardo gettato al di là del finestrino e si voltò. Con sorpresa notò la tesa del cappello che con forza coprì quel sorriso sulla banchina solo pochi minuti fa.

“Prego”, rispose non propriamente convinto.

L’uomo ed il suo cappello presero posto sul sedile rimasto vuoto.

“Ci conosciamo?”.

“Non mi sembra”.

“Strano, perché mi è parso che in stazione stavate parlando con me. Eppure son più che certo di non avervi mai visto prima”.

Straniato e in disappunto, lo fissò per un lungo minuto. La tesa del cappello, ricurva verso il basso, dava a quel misterioso volto ancora più mistero. Per un rapido momento, poi, egli mosse il collo, come per volerlo stiracchiare, e riuscì ad individuarne una pupilla. Aveva gli occhi marroni, quasi come il marrone del suo stupido cappello.

“Vi ho già porto le mie scuse per avervi importunato”, rispose.

“Oh, ma voi non mi avete importunato affatto”.

“Allora a cosa devo la vostra presenza di fianco alla mia?”.

“Non saprei. Dovreste essere voi a dirmelo”.

Il tono di quell’uomo era alquanto fastidioso, spigoloso e pungente, tanto da portarlo a pensare che non fosse legittimo di intelletto.

Egli iniziò a fissarlo senza muover mai la testa o batter le ciglia. Non fece cenno allo spostar la tesa un po’ più su per praticità di sguardo, la tenne calata, tanto quanto bastava per poter guardare senza esser visto.

L’assenza di parole, quasi anche del suono dei loro respiri, quell’occhiata invisibile ma presente, misero il viaggiatore a sufficiente disagio da ritrovarsi a cambiar posizione sul suo sedile, scavallando e accavallando le gambe, con assidua frequenza.

“Ora non dite più nulla? Erano tutte lì, sulla battigia, le vostre parole?”, sembrava quasi stizzito.

“Il mio era solo un intento di ingannare il tempo con qualche futile chiacchiera. Sembra non vi sia mai capitato prima”.

L’uomo si voltò di scatto verso il corridoio e tacque.

Il viaggiatore scavallò per l’ennesima volta le gambe. Si sporse verso l’uomo nell’intento di infilare il suo sguardo al di sotto della noiosa tesa: “Desiderereste dare corpo a quelle chiacchiere, ora?”.

Col medesimo scatto si rigirò, ritrovandosi il naso di quello ad un polpastrello dal suo. D’immediato si ricompose sul sedile, sistemandosi il cappello a coprirgli il volto ancor meglio, accavallò le gambe girando il busto dalla parte opposta al viaggiatore, pose il gomito sinistro sul bracciolo, posò il mento sulla mano e rimase in silenzio.

Pretese che quella conversazione non fosse mai avvenuta.

Il viaggiatore non volle indagare, si guardava bene dal prendersi gli affari altrui, non volesse mai il cielo che in un bel giorno di inizio primavera, nella prima classe di un treno che viaggia a velocità sostenuta, rendendo il paesaggio un dipinto postmoderno, si venisse a presentare un cappellaio, ad inguaiargli quei bei pensieri proiettati al di là del finestrino, con qualche bizzarra stravaganza.

Intanto, l’uomo ed il suo cappello rimasero immobili per buona parte del viaggio. Non si mossero nemmeno durante le fermate che il treno fece per programma, non per sgranchir le ginocchia, né per fumare il sigaro che gli spuntava dal taschino della giacca.

All’ultima fermata prima della sua destinazione, salì in carrozza una suora alta e longilinea che la tonaca le lasciava scoperte le caviglie. Aveva il viso smunto, il naso sottile ed era un po’ ingobbita di spalle. Però aveva un gran bel sorriso. Man mano che avanzava lungo il corridoio tra le due file di sedili, inchinava la testa sorridendo ad ogni passeggero che riusciva ad incrociare con lo sguardo, incluso lo strano individuo.

Fu in quel momento che egli accennò un istintivo movimento col capo, per assecondare il saluto della gentile suora.

Il viaggiatore notò quello scompenso mentre che ricambiava anch’egli il saluto.

Poi niente più.

Il treno ripartì per l’ultima volta, l’uomo sospirò sotto il suo cappello.

Poi niente più.

“Alta. Caviglie sottili. Profilo francese. Capelli come seta cinese. Gentile e pudica”.

Il viaggiatore si interrogò: “Scusatemi. Parlavate di nuovo con me?”.

L’uomo, con lo sguardo ora perso al di là della sua tesa, sognante ed in bilico tra memorie e presente, non rispose, tanto che era assorto in quelle stesse memorie.

Il viaggiatore non insistette e volse nuovamente il suo interesse al di fuori del finestrino.

“Strana allegoria la vita. – disse con tono ancora sognante – Non trovate? Non trovate anche voi che la vita sia una misera, insulsa, degradante allegoria di se stessa?”.

Il viaggiatore continuò a guardar fuori: “Non mi parrebbe. Io vedo alberi alti come grattacieli, case ridondanti di piacevolezza, il chiarore del cielo che li contrasta. Il tutto in una fugace pennellata mossa dalle rotaie”.

“Vi state forse prendendo giuoco di me e del mio dolore?”.

“Mi dispiace che proviate dolore, signore. Ma no, non mi permetterei mai di prendermi giuoco di un perfetto estraneo. Perlopiù se dolorante”.

“Allora perché non mi rivolgete lo sguardo? Avete forse dimenticato la buona educazione che per certo vostra madre vi ha dato con certosina pazienza?”.

“Ora perché disturbate la mia defunta madre?”.

L’uomo arrossì d’imbarazzo e tacque.

Il viaggiatore a quel punto voltò la testa verso di lui: “Vedete? Ci vuol poco ad offendere il prossimo se lo si vuole. Mi dispiace, vi ho detto una bugia. Mia madre si gode la vita nel suo cottage di campagna”.

“Perché mi avete teso questo inganno?”.

“Perché la differenza tra offendere e ignorare il prossimo è ben sottile. Vedete, io non voglio assolutamente mancarvi di rispetto, ma sto cercando di capire chi voi siate per potermi comportare di conseguenza. Dite cose senza senso per poi incolpare me di insensibilità”.

L’uomo si sentì braccato. Iniziò a tormentare con le punte delle dita il bordo della giacca di lino, fino a sgualcirlo del tutto. Il viaggiatore udiva il suo respiro farsi più noioso, ma aspettò pazientemente che fosse lui a decidere quando e cosa dire.

Dopo aver intrecciato le sue dita sia da un verso che da l’altro, egli passò a stiracchiare l’orlo con il palmo della mano, senza ovvio risultato, ma il gesto sembrava dargli un certo sollievo. Anche il respiro tornò ad essere meno sonoro.

“Eravamo costruiti di gioia, annodati stretti uno all’amore dell’altra. Avevamo solo da guadagnare, di danari e di vita. Una vita lunga e prospera e ricca in prole e successi”.

Il viaggiatore, non più infastidito dal suono del respiro di quell’uomo, chinò la testa un po’ più giù e vide, all’interno di quella tesa, scudo di ferro tra egli e il mondo esterno, una lacrima lambire la punta del naso. L’uomo si mosse ed il viaggiatore si ricompose di scatto. Egli quasi non lo notò, chiedendo scusa per lo sfogo poco garbato.

“Dove siete diretto?”, chiese il viaggiatore.

“Al suo capezzale”.

“Vostra madre?”.

“No, lei ha lasciato questa terra già da tempo”.

Il viaggiatore lasciò definitivamente perdere il panorama fuori dal treno per offrire la sua attenzione all’improbabile compagno di viaggio. Senza insistere, gli sembrava scortese, avrebbe atteso con la pazienza di un cipresso che egli parlasse.

Non dovette invero attendere molto. L’uomo, in preda allo sconforto, rigurgitò il suo dramma addosso allo sconosciuto vicino.

“A detta di tutti, eravamo fatti l’uno per l’altra. Anime gemelle trovate quasi per caso. Ricordo la neve alta fin oltre le caviglie, fu un inverno particolarmente freddo quello, – quasi sorrise – e ricordo il vento che soffiava forte da sud. Andavo quieto per i fatti miei quando un’improvvisa folata di vento spinse una fanciulla addosso a me. Le parai la caduta abbracciandola. Non la lasciai più”.

L’uomo si interruppe per rincorrere il suo stesso respiro. Poi si scusò nuovamente col viaggiatore per annoiarlo con le sue storie melodrammatiche, ma il viaggiatore, ormai incuriosito dalla storia, lo pregò di non badare a ciò e di continuare, qualora lo volesse.

L’uomo non ci pensò due volte: “Indossava un grosso cappotto di renna lungo fino ai polpacci, un cappello di lana fatto a maglia con un enorme pompon sulla cima. Da esso sbucavano due lunghe trecce del colore dell’ambra. Non ho mai capito di che colore fossero i suoi capelli, non erano né biondi né rossi, erano d’ambra. Sì, d’ambra. Ed era un colore che le donava! Le incorniciava il viso tondo e paffuto, risaltando il rossore delle sue gote. Ci sposammo e fummo felici per lungo tempo. Poi il mio lavoro mi portò lontano per altrettanto tempo e al mio ritorno ella sembrava che mi avesse dimenticato. Mi ignorava, mi evitava, dormivamo nello stesso letto ma come perfetti estranei. Così decisi di andare via, senza dirle niente. Partii per l’ennesimo viaggio di lavoro e non tornai più”.

Al solo ricordo di quel funesto giorno, lo sguardo dell’uomo tornò a rifugiarsi dentro la tesa del cappello. Moriva di vergogna, di rimpianto o forse di paura. Perché adesso ne sentiva addosso la colpa. Una colpa che per tutti quegli anni non ha mai ponderato. Sentiva quel peso sul cuore, quello che senti solo nel momento in cui ti rendi conto di aver fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa contro principio.

“Un crimine! Ho commesso un crimine! Dovrei essere rinchiuso, incarcerato e dovrebbero buttar via la chiave! Oh, cosa ci sto andando a fare adesso da lei? Mi avrà odiato sentendosi ripudiata ed io… io adesso vado a porle i miei omaggi, il mio cordoglio. Ma perché? Non ne ho alcun diritto, dopo tutto quello che le ho fatto. E lei non merita una tale offesa. No, tornerò indietro, o le arrecherò un’offesa ancor più grave”.

Il viaggiatore rimise i pezzi insieme da sé. Non capiva se la donna in questione fosse ancora viva o stesse per tirar le cuoia o fosse solo in cattiva salute, ma provò a formulare una sentenza di conforto che potesse avere valenza in ogni caso.

“Suvvia, non abbattetevi così. Siamo tutti predestinati all’errore. Siamo fatti di esperienze, di errori e qualche volta anche di vittorie. Voi non sareste uomo se non aveste mai compiuto un errore almeno una volta nella vita”.

“Sì, ma questo… Questo non si può considerarlo semplicemente ‘errore’. Questa è una tragedia!”.

“Una tragedia scaturita da un errore che voi non vi siete potuto evitare di compiere”.

“E ne pago il prezzo. Un prezzo alto, amico mio”.

“Me ne dispiaccio per voi, ma credo che il fato ci ha fatto incontrare perché il mio compito ora sia quello di impedirvi di farne un altro. Non ritiratevi, raggiungetela e implorate il suo perdono, sono certo che ve lo darà. Vi sentirete così più leggero e in pace con voi stesso, e quando il vostro momento sarà giunto, potrete recuperare il tempo perso, con buona pace di entrambe le vostre anime”.

L’uomo rimase perplesso dinanzi la sentenza ultima del suo compagno di viaggio, egli era un uomo in giacca tartan e mocassino in pelle di bue nappato, aveva l’aspetto di un uomo d’affari, elegante e ammodo. Una risposta del genere sentiva che non gli si addiceva.

Preso dal fastidio di non riuscire a collocarlo in un contesto ben preciso, si sbilanciò: “Ma voi, chi siete?”.

Il viaggiatore lo guardò ammiccando un sorriso a mezza bocca: “L’apparenza inganna, amico mio”.

“Cosa intendete?”.

“Che l’abito non fa il monaco. E, difatti, non sono monaco”.

“Si sta facendo scherno del mio intelletto?”.

“No, non mi permetterei mai e non ne avrei nessun motivo. Voi non mi sembrate affatto stupido”.

“E allora?”, l’uomo sentiva innervosirsi.

Il viaggiatore, per dovere di cortesia, volle ricambiare la sua storia con la propria.

“Fui un tempo prete e questi abiti non avrei mai pensato di indossare. Ma commisi il fatale errore di innamorarmi e mi spogliai dell’abito talare quello stesso giorno”.

“Fatale, dite?”.

“Perché all’amore non si può resistere e io ho anteposto quello per una donna a quello di Dio. E devo dire, in tutta onestà, che non me ne pento”.

“Dio vi punirà per questo. Avevate giurato il vostro amore a lui e ora gli preferite quello carnale”.

“No, Dio comunque mi amerà, come amerà anche voi. Perché nulla può più dell’amore”.

 “E vi sposerete?”.

“Lo sto andando a scoprire”.

 

Il treno fischiò il suo arrivo.

I due uomini recuperarono con calma i loro rispettivi bagagli e scesero in stazione. Il sole era quasi a mezzodì ed il profumo dei pranzi nel quartiere si confondeva con gli sfiati del treno. Essi si salutarono con cortesia augurandosi vicendevolmente buona vita.

Non si rincontrarono mai più, ma nel corso delle loro lunghe vite rimasero l’uno nel ricordo dell’altro.

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