Cenere

 

Ogni 3 giorni - If you were in my shoes. Laika MCMLIV, 2021

Sono scesa giù nell’inferno, ne conosco ogni piccola intercapedine, mi sono fatta coccolare, consolare, cullare e abbindolare dalle sue fiamme calde e avvolgenti; ne conosco forma e colore, finanche il sapore, pungente e amaro, ma in quei momenti mi sembrava il sapore più delizioso del mondo.

È stato difficile risalire, abbandonare la certezza di quei sapori, così chiari e definiti che la mia lingua conosceva bene, quel calore morbido e soffocante al quale le mie carni si erano abituate e assuefatte. Ma eccomi qui, sana e salva, con le tasche piene di cenere e le cornee ustionate.

Sarà forse l’amore un’illusione, al pari del rispetto e della buona educazione?

Sarà forse che siamo noi troppo indaffarate ad amare, tanto da non accorgerci di tutto quello che gira intorno?

Sarà forse una conseguenza da eccesso di amore, come lo zucchero per il pancreas, come il sale per il cuore?

Sarà forse per egoismo e malato egocentrismo che ci offriamo a quelle mani che in quei momenti diventano grandi come un’illusione lunare?

Sarà forse che davvero ho sbagliato qualcosa, o che ho detto qualcosa?

Quant’è lunga la strada del perdono. Genuflessa su questi ceci avanzo a tentoni nella speranza di una sacrificale redenzione. Un’altra.

Intanto non ho luogo e non ho tempo, sospesa nel limbo terreno di chi, tra la vita e la morte, dondola appesa ad una liana sottile sperando di toccare presto l’altra sponda del torrente.

E mi chiedono e mi chiedo il perché di questo dondolare, come ho fatto a finire qui, sospesa, in attesa, non più madre, non più donna, massa informe decentrata dall’essere e dal sarò.

Perché? Chissà se c’era un perché.

Perché l’uomo che nasce tondo non muore quadro, perché uno più uno non fa tre, perché la terra gira mentre il sole resta a guardare.

Chissà perché. Forse non c’era un perché, o forse c’era e nessuno lo saprà mai.

Se queste ferite che ho nell’anima potessero parlare, se il sangue che è sgorgato dal mio cuore potesse tornare indietro, se solo potessi essere.

Nello specchio non vi è più alcun riflesso, mi muovo in tondo, come un’ombra alla ricerca del suo corpo, scavo profonde buche a mani nude e non mi fermo fin quando le unghie non sanguinano, per poi scoprire che non c’era nulla, che non ricordo il motivo per il quale ho iniziato a scavare.

Mi dicono che devo ricordare, mi dicono che devo continuare a scavare, promettendomi che le unghie non torneranno a sanguinare. Mi dicono che tutto si sistemerà, che tutto tornerà come prima, senza nemmeno chiedermi se io voglio che tutto torni come prima.

Questo mio corpo ora parla, urla esausto tutta la verità senza che io apra bocca.

Cosa c’è che dovrei dire? Cos’è che dovrei spiegare? Non la vedete la mia carne martoriata, i miei occhi rosso rubino, il mio fiore reciso?

Ditemelo voi cosa dovrei fare, perché ogni volta che io provo a dire qualcosa voi subito mi fermate per ripropormi la stessa domanda più e più volte, perché la vostra verità non è questo mio deforme tatuaggio. La vostra verità aleggia nell’aria, si muove sorniona tra le fronde degli alberi recidendone i frutti, s’insinua come una biscia tra le fenditure del pensiero occludendole, soffocando l’ospite.

Quelle mani che un tempo ritenevo forma di familiare tenerezza ora vagano per il mondo, libere di mostrarsi per quello che non sono. Accarezzeranno un altro volto e cingeranno altri fianchi, sorrideranno ricambiate e, con l’inganno, colpiranno un altro paio di occhi che, come i miei, diverranno rubini rari. Di una rarità senza valore.

Forse un giorno torneranno da me, chiederanno scusa, proveranno ad accarezzarmi ancora sforzandosi di non mostrarsi più come l’illusione lunare che mi immortalò. Pretenderanno di tornare ad essere mie alleate ed io, cosa farò? Tornerò a dipendere da loro e dal loro costruito amore?

Sono ora queste le mie memorie, quelle che rimarranno in perpetuo, come quei piccoli loculi posti nella fila più alta al cimitero, quelli che nessuno toccherà più, quelli dove nessuno si prenderà mai la briga di salire sulla scala per mettere un fiore.

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