Luna

 

Il principio del piacere (Ritratto di Edward James). René Magritte, 1937

Quella mattina Luna si stava preparando per andare sulla spiaggia, quando all’improvviso le si piantò davanti un suo amico. Luna fece un balzo portandosi la mano al petto.

Le propose di andare con lui per una gita fuori porta.

“Quando?”.

“Ora”.

Luna rimase spiazzata, ma disse di sì, le sembrava una meta bella e divertente, una di quelle mete che appena ti capita l’occasione la devi cogliere al volo. Forse però il problema sarebbero stati i suoi pantaloncini, forse troppo corti, e poi indossava anche il costume da bagno, ma il suo amico le rassicurò che andava bene così, in fondo avrebbero trovato il mare anche lì.

Mollò la borsa con la crema solare e l’asciugamano e prese quella con dentro tutto il resto.

 

Il lungomare ed il suo molo, in quel giorno di inizio maggio, erano avvolti da un vento che agitava il mare come anche i suoi nervi, che per dar retta al suo spavaldo amico ora aveva le gambe che sembravano due ghiaccioli.

Le onde, alte e schiumose, si infrangevano contro i massicci pilastri che sorreggevano il molo, e contro la battigia, nivea e lineare, la cui morbida sabbia sprigionava il fragrante profumo del mare. Più in là nel porto, erano ormeggiate delle barche a vela di legno, gelose custodi di un fascino senza tempo. Le cime dei loro alberi cigolavano al ritmo dei soffi di Zefiro e, su quello specchio di acqua inquieta, sembravano danzare come cigni nel rito del corteggiamento.

Incurante del fastidioso vento il paese pullulava di vita, persone andavano passeggiando o pedalando, con i loro volti illuminati da solari sorrisi e quel tipico atteggiamento di chi ha avuto tutto dalla vita ed è pienamente cosciente della sua dimensione.

Poco distante, sulla strada principale, passava un pick-up Chevrolet del 1954 color carta da zucchero che, con lo stile coloniale delle abitazioni, le maioliche e i lampioni che riprendevano il design del primo ‘900, andava creando una cartolina d’epoca.

Luna inspirò a pieni polmoni, con le braccia aperte e il mento rivolto al cielo. Voleva inalarlo quel momento, farlo suo per sempre, voleva sentirselo scorrere nelle vene, nei bronchi, nelle interiora. Con un gesto leggiadro abbracciò le strade, il pick-up, i lampioni, il lungomare ed il porto. Quella piccola cittadina era come ossigeno allo stato puro, necessario, vitale, infiammabile.

Il suo stato d’animo era incontenibile, tant’è che il suo amico faticava a starle dietro. Ma a lei non importava, sentiva la necessità inesorabile di correre e danzare, fare le capriole e arrampicarsi sul palo, fare con esso una piroetta e cantare.

Cantare come se nessuno potesse ascoltarla, a squarciagola, e mentre lo faceva la città sembrava svuotarsi, tutte quelle persone, che sorridevano tronfie, si fermarono, ognuna nella posizione dell’atto del momento e lentamente andarono svanendo, come svanisce la foschia quando il sole sorge.

C’era ora solo lei, radiosa come non mai, cantare al ritmo delle onde che continuavano ad infrangersi sulla terraferma, danzare all’unisono con gli alberi maestri e le fronde delle palme. E il suo amico, fermo immobile ma non sbiadito, la guardava chiedendosi cosa stesse succedendo.

 

“Ehi, Luna! Sveglia, Luna!”, il suo amico la scrollò ben bene prendendola da un braccio.

Luna trasalì e si guardò intorno. Il pick-up si era allontanato.

“Era tutto un sogno”, disse amareggiata.

“Un sogno? Che fai, ti metti a sognare ad occhi aperti, ora?”, chiese ridendo.

Luna fece finta di ignorarlo e proseguirono la passeggiata. Era ancora tutta presa dalla scena che si era costruita nella sua mente, com’era facile per lei imbambolarsi a fissar una nuvola o il dondolio di un onda e perdersi definitivamente in esse, dando vita ad un mondo parallelo nel quale entrare e uscire a suo piacimento, tenere ciò che le piace e cancellare ciò che la disturba.

– Non è mica male ‘sta cosa qua. – pensava – Anzi, dovrebbero insegnarlo a scuola. Anzi, meglio, dovrebbero creare delle scuole apposite per ‘sta roba qua. Così tutti sarebbero in grado di creare il loro mondo personale, decidere chi è dentro e chi è fuori e usarlo come rifugio dalla monotonia della vita quotidiana.

Sarà che i suoi pensieri facessero rumore, sarà che il suo sguardo ancora assente parlasse da sé, sta di fatto che il suo amico intervenne: “Lo sai che una roba del genere già esiste, vero?”.

“Ma che sei? Telepatico? Io non ho spiccicato parola! – riavvolse i suoi pensieri in un attimo, giusto per controllare che non avesse per davvero fiatato – Ne sono convinta, non ho fiatato!”.

Imbarazzato rispose: “Io mi riferivo a prima. A quando ti ho presa a gomitate per svegliarti dal tuo mondo dei sogni ad occhi aperti. Dicono che sia sintomo di follia”.

“Ma sarai folle tu!”.

“Non posso essere manco più sarcastico?”.

“No”, Luna arrossì, non sapeva come uscire fuori da quel groviglio nel quale si era cacciata.

“Volevo solo dire che se hai voglia di cambiare aria, piuttosto che imbambolarti in un sogno, potresti usare la realtà virtuale. O una di quei giochi interattivi dove nessuno conosce nessuno, ma sono tutti convinti di essere amici da tutta una vita”.

Luna aveva ben capito, stava proponendole una cura matta per una persona matta.

Ci stava pensando per davvero: – Fosse che davvero avrei bisogno di una cura? Ma di una cura più matta di me? – scosse la testa, – Certo che no! – non era mica matta, lei.

Amava la sua condizione, secondo lei era una condizione da privilegiata. Sono in pochi coloro che riescono a sognare così intensamente e a costruire un intero mondo partendo da zero. Uno intero, dico. Pieno dei particolari più insignificanti.

Luna ci riusciva con gran facilità – Altrimenti perché sto a dire che servirebbe una scuola per insegnarlo agli altri? Io potrei benissimo fare l’insegnante – un sorrisetto colmo di soddisfazione apparve sul suo volto.

“Lo stai facendo di nuovo?”.

“Cosa?”.

“Perderti nei meandri della tua testa, a giocare all’altalena su di una nuvola”.

– Su di una nuvola, dici? – rimuginò – No, l’altalena viene meglio se la leghi a due stelle, lo sanno tutti. O alla luna… Ehi! È il mio nome! Potrei legare l’altalena al mio nome! Sarebbe come se una doppia me mi spingesse – ridacchiò inaspettatamente ad alta voce.

“Sei incorreggibile! Non ce la fai proprio a stare sulla terra assieme a me?”.

“E tu smettila di darmi idee!”.

“Dovresti davvero provare uno di quei cosi, magari ti farà bene”.

“Quei cosi, cosa?”.

“Quegli occhiali 3D o uno di quei giochi dove puoi essere chi vuoi”.

“Ma io voglio essere io, a me piaccio così”.

“Anche a me piaci così”.

“E allora?”.

“E allora questa cosa qui che ti perdi e difficilmente ritorni sta prendendo un po’ troppo il sopravvento. Sembra quasi che sia lei a controllare te”.

“Magari mi piace”.

“Magari potrebbe essere pericoloso”.

“Mai quanto un occhiale 3D o uno di quei pseudo giochi dove tutti sono tutto tranne che quello che dovrebbero essere”.

“Ci stiamo perdendo?”.

“Mi sa di sì”.

“Ok. Pausa?”.

“Pausa”.

Era così che se la cavavano, quando la conversazione degenerava o non conduceva a niente andavano in pausa.

Quella pausa fu più lunga del solito, sembrava avessero perso gli argomenti, che non volessero sbilanciarsi, uno per dare il la ad un altro stravagante viaggio surreale, l’altra per non dar motivo di pensare che fosse matta per davvero.

Poi, una panchina posta tra due solide e slanciate palme, ruppe il ghiaccio per loro.

“Mmm, senti che bella brezza marina”, disse ad occhi chiusi, le gambe stese con le punte dei piedi rilassate e le mani giunte sull’addome.

Luna sospirò compiaciuta e immediatamente lo imitò.

Non ci volle molto perché si abbandonasse nuovamente ad un suo sogno, alimentato dalla sua fervida immaginazione e dalla sua sete di nuovo, di inconsueto, di quell’angolo di paradiso irraggiungibile per chiunque, ma non per lei. Il suo piccolo scrigno segreto si stava riaprendo e con un inchino la invitava ad entrare.

Della musica da camera iniziò a diffondersi nell’aria e le fronde delle palme a muoversi seguendone il ritmo. Si curvarono all’ingiù, fino alla sua altezza e la sollevarono, tramutando le loro foglie in un soffice giaciglio.

– Da qui si vede l’infinità del mare – pensò – e le barche sembrano tanti puntini bianchi e marroni. Guarda invece come sono vicine le nuvole! Soffici, fresche, chissà se le do un morso cosa succede.

Luna allungò la mano verso di loro per prenderne un pezzo, ma la palma si mosse bruscamente lasciandola cadere. Per fortuna una raffica di vento, passando di lì, le evitò il tracollo e l’accomodò su di una tavola di legno.

Luna si acchiappò subito alle due corde che tenevano dritta la tavola: – Ma guarda, questa è l’altalena! E non è legata ad una nuvola, ma a due stelle! Proprio come dicevo io! Ah! Mi sentirà quando tornerò! Mmm, come si sta bene quassù, che bell’aria fresca che c’è, mi sa che ci rimango per un bel po’.

Luna dondolava con gran maestria, abbandonandosi ogni tanto all’indietro, cosicché il vento potesse carezzarle l’intero corpo e pettinarle i lunghi capelli. La musica continuava ad aleggiare nell’aria, le corde sfregate dei violini, quelle martellate del pianoforte, l’aria che  nella canna del flauto traverso si libera in un trionfo armonioso.

Luna danzava di nuovo; ora ruotava come un derviscio, ora piroettava e saltava, come farebbe una grande etoile, muovendo a tempo e con grazia le sue esili braccia e le gambe; ora l’accompagnavano in un duetto figure di incomprensibile natura, ora si inerpicava in un vortice di polvere dorata per poi tuffarsi giù nel mare notturno di stelle e di pianeti.

Luna era nel suo elemento ed osservava il suo amico poltrire sulla panchina, ignaro del suo bellissimo creato. Si chiedeva come egli potesse vivere in un mondo così banale, pieno di colori ma senza sfumature, senza chiaroscuri, senza luci e senza ombre.

– Guarda me che invece creo ciò che voglio per come lo voglio e quando lo voglio. – diceva guardandolo – Io conosco tutte le sfaccettature dell’amare, ogni angolo nascosto dell’essere e del non essere. Io che non sono matta, bensì capace di una magia antica che quelli come te rifuggono per il timore di rimanerne intrappolati.

I sotterfugi moderni erano per Luna la vera trappola, quel doversi per forza di cose aggregare agli altri per non sentirsi diversi, matti. Lei a suo modo, segretamente, ripudiava il mondo in cui era costretta a vivere, risultato di un sottointeso assenso alla monotonia, perché in essa vi era custodita la rettitudine.

Almeno Luna non mentiva a sé stessa, e poco importava se gli altri in lei vedevano solo quello che volevano vedere.

 

Quando il suo amico rinvenne ed aprì gli occhi Luna non era più seduta di fianco a lui. Dapprima scanzonato, certo che gli stesse tirando uno dei suoi scherzi, girò intorno alla panchina e alle palme, ma non la trovò. La sua espressione si accigliò e, iniziando a temere per l’amica, corse un po’ di qua e un po’ di là, senza alcuna logica.

“Luna! Luna! Dove sei? Luna!”.

Nessuno rispondeva e nessuno si fermava a dargli retta, ad aiutarlo a trovare la sua amica scomparsa, intanto che il vespro si avvicinava alla terra.

“Luna! – continuò – Luna! Mi stai facendo paura, Luna! Ti prego, fatti vedere!”.

Luna allora si manifestò.

Della brina scese sulla fronte del suo amico che d’istinto alzò lo sguardo, fu allora che la trovò.

Luna gli sorrise baciandolo con altra brina.

Egli dapprima scettico, infine ricambiò quel sorriso. Il suo volto, umido, brillava sotto la luce di Luna; si leccò con la punta della lingua la brina dal labbro superiore e sorrise di stupore: “Sa di zucchero filato!”.

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