Crisalide

 

Filosofo che osserva due farfalle. Katsushika Hokusai, 1814-1819

Faceva freddo, ma non un freddo qualsiasi, faceva quel genere di freddo pungente come l’aculeo di un istrice, quel freddo che ti entra dentro le ossa e ti immobilizza le giunture. Le strade erano bagnate e viscide, ad ogni angolo un cumulo di ghiaccio restava in panciolle fregandosene del sole nascente. I marciapiedi erano talmente scivolosi che ci sarebbero volute le scarpe chiodate per camminare senza incresciosi incidenti.

Immagina un po’ che figura grama e meschina se tutto d’un botto finissi con i talloni all’insù. I passanti si fermerebbero a guardarmi, ad ammiccarmi con i loro lunghi indici e riderebbero. Oh, se riderebbero!

Riderebbero di me, dei miei stupidi talloni e del mio grosso sedere schiantatosi come un meteorite. E inizierebbero a parlare delle mie gambe storte, delle mie orecchie a sventola e dei miei denti pronunciati. Non noterebbero altro che difetti in me, perché chi finisce coi talloni rivolti al cielo altro non è che un goffo individuo indegno di un aiuto per riaccomodarsi.

Eh sì, li vedo proprio, tutti intorno a me a scrutarmi come bertucce incuriosite. Ma io sono più furbo di loro e faccio ben attenzione a dove metto i piedi.

Vedi? Se cammino qui, il più vicino possibile al muro dei palazzi, si scivola meno, perché il calore che esce dalle porte scioglie un po’ questo ghiaccio fetente. Se invece vado un po’ più in là, più sul cordolo del marciapiede, scivolerei di certo. Già ci scivolo al solo pensiero di metterci il piede sopra!

Non mi importa di sembrare una lucertola, ma io camminerò rasentando il muro, come una spia, come un ladro che si vuol nascondere, ma almeno arriverò a destinazione sano e salvo e soprattutto nessuno mi prenderà in giro.

 

Quella gelida giornata iniziò un po’ in sordina, col freddo che faceva non aveva certo tutta questa gran voglia di disfarsi di quel bel piumino soffice e caldo con il quale si era avvolto come un baco, ma non poteva nemmeno restare tutto il giorno a non far niente. Prima o poi si sarebbe dovuto alzare, se non per mangiare almeno per far pipì.

“Uffa, però!”.

Eh sì, non è mica facile per uno che, magro come un’acciuga diliscata, teme il freddo più della morte.

“Alla morte non c’è rimedio. Non ancora, almeno. Al freddo ci sarebbe, se non fosse che mi mette una gran svogliatezza”, si trascinò in bagno strisciando i piedi in terra, producendo quel fastidioso fruscio che la suola della ciabatta emette quando friziona con forza sul legno del parquet.

Prese lo spazzolino e iniziò a strofinarsi i denti energicamente: “Il movimento del gomito mi tiene caldo”.

Finiti i suoi affari, infilò prima una gamba e poi l’altra dei pantaloni di lana, poi i calzettoni e infine un maglioncino blu con lo scollo a v sopra una camicia paglierina. Qualsiasi cosa indossasse sembrava che l’avesse rubata di fretta e di furia da qualche stampella dei grandi magazzini. Gli vestiva tutto largo, non esisteva negozio che poteva confezionare qualcosa con meno stoffa.

“Ma sai quanto risparmierebbero le boutique se fossero tutti come me? Guarda qui, ci casco dentro due volte e la cintura fa invece il giro tre. Con metà della stoffa mi verrebbe fuori un bel corredo da signorino da maritare”.

Lascia perdere acciughino, che ora hai d’andar a lavorare e con quegli stecchini ti ci vorrà un po’ per far tutta quella strada. Ha nevicato tutta la notte, sai? E ora il ghiaccio è lì in tua trepidante attesa.

E non mi fare la linguaccia, che lo sai che ho ragione!

“Lo fai apposta! Perché vuoi che tutti ridano di me! La cosa ti diverte, lo so bene, lo so”.

Ma smettila con questi assurdi pensieri. Piuttosto sbrigati che si sta facendo tardi. Allaccia bene le scarpe. E la ventiquattrore! Non te la dimenticare! È lì, sulla poltrona!

 

Eh sì, son proprio pronto ora, prendo le chiavi e chiudo la porta. La cravatta non l’ho messa perché non mi piace come mi sta, sembro un tacchino che sta per essere sgozzato, ma non un tacchino buono da mangiare, uno di quelli spelacchiati e malati che devi ammazzare perché non faccia ammalare tutti gli altri tacchini, sennò addio pranzo di Natale!

Caspita quanto ghiaccio qua fuori! Avevi ragione, qui ci scappa il morto!

– Non esagerare, ora! –

Ma io non esagero affatto! Come le scendo le scale? M’arrampico sulla ringhiera? Sì, mi sa che mi arrampico sulla ringhiera, un po’ come i vigili del fuoco sul palo quando hanno un’emergenza, solo che qua l’emergenza sono io! Che figura se poi casco! Quel tizio dall’altra parte della strada mi sta guardando il sedere, non vede l’ora che si rovesci al suolo.

Ancora un piccolo sforzo… ed eccomi sano e salvo con i piedi ben ancorati al marciapiede.

 

E fu così che cominciò a camminare rasentando i muri dei palazzi, come una lucertola, come una spia o un ladro inabile nel mimetismo.

C’era la gente che lo guardava, simile ad un’attrazione da circo. Spalle al muro muoveva i passi lateralmente come un granchio e ad ogni passo guardava in terra per notare le chiazze di ghiaccio e poi insù, perché il ghiaccio può arrivare anche dall’alto.

“Sì, sì, ridi tu! Guarda che qui come esce un po’ di sole sfilano giù certe stalattiti che ti possono impalare!”.

Oh, ma io ci credo, anzi, ti dirò di più, le ho viste con questi miei occhi, solo che non sono fifona come te.

“Ora insulti pure?”.

No, non mi permetterei mai, sono una persona educata, io.

“E allora smettila e dammi una mano”.

E come? Ti infilo nel taschino di un paltò?

“Stai lì a giudicare e deridere, a dire di questo e di quello. Cambia la storia e fai sparire tutto questo ghiaccio!”.

Ma la storia ormai è iniziata, non posso mica cambiarla così, solo perché a te non va. E poi sei stato tu che all’inizio hai voluto vantarti per la tua furbizia e piangerti addosso per i tuoi mille difetti, che oltretutto vedi solo tu!

“Eh sì, ora va a finire che è colpa mia”.

Perché? Sarebbe mia? Io ho solo iniziato dicendo che faceva freddo, sei tu che ti sei infilato lì di punto in bianco senza nemmeno chiedere permesso!

“Eh sì. Eh sì! Vedi che insinui sia colpa mia? Io stavo così bene sotto le coperte, al calduccio, avvolto come un baco da seta. Accoccolato tra le piume ed i cuscini”.

E magari aspettavi di diventare una bella farfalla e spiccare il volo!

“Forse sì! Forse è proprio quello il mio destino! Diventare un giorno farfalla, in barba a tutti quelli che mi chiamano brutto!”.

Ma nessuno ti chiama così.

“Non è vero. Lo hai fatto anche tu!”.

Ma quando mai? Io mi sono solo limitata a descrivere le tue peculiarità.

“Quelle brutte, appunto!”.

Brutte, belle… le peculiarità sono peculiarità, non sono né brutte né belle. Ognuno ha le sue, che piaccia o no.

“A me non piace! Non in quel modo!”.

Ma quanto sei permaloso! Senti un po’, che hai deciso di fare? Rimarrai appiccicato a quel muro stringendo la tua ventiquattrore sul petto per tutto il giorno o ti darai una mossa e continuerai a camminare? No, perché io, qui, non è che ho tutto il giorno.

“Che cafona!”.

Sarà, ma ad una certa avrò da cucinare.

“Eh sì, sei proprio una gran cafona. Vabbè, fammi un po’ vedere, qua. Di lì da quell’altro angolo sembra che si scivoli meno. Fammi attraversare, ma bada bene che le auto rispettino i segnali!”.

Che fifone! Ecco qua, contento?

“Grazie, piccola scribacchina cafona”.

Adesso sei tu a insultare?

“Perché, mi hai sentito?”.

Certo che sì!

“Ma io l’ho solo pensato!”.

Ma io riesco a sentire anche i tuoi pensieri, escono dalla mia penna anche quelli, sai?

“Oh, ma che cavolo!”, seguitò con una serie di suoni e smorfie.

 

Ma guarda un po’ tu se mi tocca di inalberarmi di prima mattina, che poi mi deconcentro e rischio per davvero di finire coi talloni all’insù. Ma guarda un po’ tu se devo ora pensare che sembro ridicolo anche per come cammino.

Ma chi se ne frega! Lo so bene, lo so, di essere ridicolo. Lo so bene, lo so, che tutti mi guardano come fossi un fenomeno da baraccone, ma a me importa solo di arrivare sano e salvo a destinazione e se la sua stupida penna non m’aiuta, allora devo aiutarmi da solo. E questo è il modo migliore che ho trovato oggi.

Domani, poi, magari sarò diventato quella famosa farfalla e allora volerò in barba a lei, al ghiaccio e a tutti quelli che ora mi fissano peggio di un voyeur pieno di voglie!

Questa fastidiosa giornata passerà e passerà anche questa sensazione che ho del suo fiato sul mio collo, delle sue mani giganti sulla mia testa, che ora vorrebbero afferrarmi e traslarmi da qualche altra parte in questa assurda storia che sta scrivendo.

Ma non glielo permetterò, anche perché sono arrivato dove dovevo arrivare e sono salvo.

Non son caduto, quindi nessuno si è burlato di me. Forse lo avranno fatto comunque visto come mi guardavano mentre ero intento nelle mie intenzioni, ma ora quel momento è passato e sono tranquillo.

Sano e salvo e tranquillo.

 

Lo lasciai fare, anima penosa, timida e fifona. Lo lasciai ai suoi affari e ai suoi strani pensieri e la sera lo feci tornare a casa con più facilità, cosicché non si fosse di nuovo lamentato inveendo contro la mia penna come un novellino Don Chisciotte.

Con tutta calma consumò la sua cena, si strofinò i denti al medesimo modo della mattina, infilò una gamba e poi l’altra del pigiama di flanella, regolò la sveglia e si avvolse nel suo adorato piumino caldo e soffice, tra le piume e i cuscini, proprio come piaceva a lui e divenne di nuovo crisalide.

E come tale passò l’intera notte.

L’indomani, il gelo era sparito quasi del tutto, il sole faceva di nuovo capolino tra le cime dei palazzi, il ghiaccio si dissolveva in vapore.

Il caldo e soffice piumino si aprì e lasciò trapelare la sagoma di quella buffa crisalide. Si erse al di fuori del suo comodo guscio e spiegò le variopinte e simmetriche ali.

Uno splendido macaone spiccò il volo e, librandosi tra gli alberi e i grattacieli, tra le genti e i loro sguardi ammaliati e stupiti, andò via per la sua strada, in barba a me, in barba a te e a tutti quelli che delle sentenze sono re.

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