Lo specchio del tempo

 

Ritratto di Michel Leiris. Francis Bacon, 1976

Osservando la sua immagine riflessa nello specchio, con i palmi delle mani si stropicciava il viso eseguendo frenetici movimenti verticali. Nelle sue orbite oculari si vedevano i filamenti di sangue disegnare le sottili vene che ne esaltavano il niveo biancore.

Si chiedeva cosa facesse lì, in quel luogo dimenticato dal dio come dall’uomo. La barba incolta di giorni, forse settimane iniziava a prudere e i vestiti cominciavano ad emanare un odore di marcio.

Dopo un’ultima smorfia allo specchio, rivolta a sé stesso come insulto gratuito, nella piena convinzione di meritarlo, si diresse verso la finestra. Al di là dei vetri opacizzati dall’età, vedeva il cielo rosso come fuoco e la terra nera come inchiostro.

Non vi era anima viva, nessuno verso destra, nessuno verso sinistra, nessuno all’orizzonte. E non si udiva alcunché, nessun suono da sopra, nessun suono da sotto.

Un sibilo di vento sollevò lesto il pulviscolo che ricoprì il patio annebbiandogli la visuale. Si allontanò dalla finestra e, volgendo per un attimo lo sguardo nuovamente allo specchio, si sedette sul letto.

Allungò la mano verso il piccolo frigorifero inglobato nel comodino, una mela imbrunita stava decomponendosi sullo scaffale centrale. Richiuse lo sportello con scatto nervoso e si distese sul letto a fissare il soffitto. La tinta si stava scrostando, si iniziava a vedere l’intonaco ingiallito dal tempo e dall’umidità.

Senza mai sbattere le palpebre fissò quelle macchie abbastanza a lungo da veder prendere vita in esse i suoi tormenti.

Fino a quando un violento tremore attraversò la Terra producendo un rombo simile a quello di un’esplosione. Il suo corpo traballò assieme al letto, il comodino avanzò, lo specchio si frantumò e la finestra si spalancò.

Poi tornò il silenzio, la folata di vento che prima annebbiò i vetri ora entrava dritta nella stanza ricoprendo di polvere nera il suo corpo.

Rimase disteso e noncurante, era tutto normale, non c’era nulla di diverso, era tutto esattamente lo stesso, ogni giorno.

Il giorno dopo la sequenza si ripeté, così come il giorno dopo e quello dopo ancora: cammina verso lo specchio con il corpo sudato nella canottiera bianca, si stropiccia la faccia fino a divenir paonazzo, si regala una smorfia di disapprovazione, si dirige quindi verso la finestra, osserva il rossore del cielo e l’oscurità della terra in contrasto con esso, si siede sul letto, apre il frigo per poi distendersi a fissare le macchie di muffa sul soffitto, la terra poi trema e anche il letto, il comodino avanza, lo specchio si frantuma e il suo corpo si ricopre di polvere sottile come talco.

Ogni giorno.

Ogni singolo giorno.

Senza mai un minimo cambiamento. Mai nemmeno un’altra persona che non fosse lui ad irrompere nella cornice monotona e straziante che era la sua sfumante esistenza.

Giorni, mesi, anni, tutto uguale, tutto piatto, tutto rosso sulla sua testa, tutto nero sotto i suoi piedi, tutto polvere intorno sé.

 

Arrivò poi un tempo in cui il tremore della Terra si fece più intenso, così come il rombo che lo accompagnava; e la polvere si fece più spessa e pesante.

Disteso come al solito sul letto, le macchie sul soffitto divennero crepe. E le crepe si aprirono lasciando entrare il rosso del cielo, che ora incombeva maestoso non più solo sulla sua testa.

Si sedette senza mai distogliere lo sguardo dal soffitto, intanto che il comodino avanzava e lo specchio si frantumava.

All’unisono con i frammenti di vetro che si schiantavano sul lavabo, qualcosa cadde sul suo viso, tra il naso e la gota. Si toccò con un dito raccogliendo con esso una viscida goccia, si guardò il dito, ma non vi era nulla se non quella strana sensazione vischiosa.

Rivolse di nuovo lo sguardo verso l’alto e quel qualcosa cadde di nuovo sul suo viso, nello stesso punto, poi di nuovo e di nuovo ancora, fino a cadere ogni volta in posti diversi seppur sempre su di lui, sul suo volto emaciato dai continui sfregamenti delle mani, sulla sua canotta logora e fetida, sulle sue gambe e i suoi stivali.

Come macchie di vernice quelle gocce si legavano alla superficie dove si depositavano e non bastavano le sue mani a farle andare via strofinando e strofinando.

D’istinto si alzò e, come raggiunse l’angolo opposto della stanza, il soffitto crollò.

Non si scompose, nel suo atteggiamento distaccato e contenuto si deduceva che ciò che era appena successo fosse del tutto normale.

Raccattò il giaccone dal pavimento e lasciò la stanza, non prima di essersi girato verso lo specchio per l’ennesima smorfia, ma lo specchio giaceva in frantumi tra il lavabo e il pavimento.

La smorfia la fece lo stesso, una di fastidio, sollevando ad arco un lato del labbro superiore e arricciando il naso.

Indossò il giaccone mentre che si avviava verso quell’orizzonte desolato e lontano. Gli stivali affondavano pesantemente nel nero terreno sollevando ad ogni passo un denso pulviscolo, il vento soffiava basso e leggero dietro di lui, sembrando quasi volerlo incoraggiare a procedere nella direzione presa.

Il cammino proseguì per giorni, tutti uguali, come erano uguali quelli vissuti in quella stanza decadente. Ad ogni passo i suoi stivali affondavano sempre di più, fino a rendere il suo avanzare quasi impossibile.

Iniziò ad arrancare, il nero terreno con il suo denso pulviscolo, mischiato al viscidume caduto dal cielo, arrivava ora ai suoi polpacci, ora alle sue ginocchia, ora al mezzo delle sue cosce, ora ai suoi fianchi.

Con movimenti circolari delle braccia avanzò ancora di qualche metro, sforzandosi di tenere alto il mento per poter respirare.

Una bracciata, due bracciate, tre bracciate, quattro, cinque, dieci, undici, …

 

Da quell’orizzonte oscuro e ignoto, sbucò un veliero col suo albero maestro imponente e fiero. La prua tagliava come burro quel mare nero di terra, le vele fronteggiavano testarde quella nebbia di denso pulviscolo.

Uomini all’erta sul ponte scrutavano senza sosta tutto intorno. Scorsero quindi uno scoglio la cui cima, smussata e omogenea, sfiorava la superficie nera vedendosi appena.

Il veliero gli si accostò e un uomo, calata una solida fune a babordo, scese su di esso. Come i piedi lo toccarono, questo subito affondò. L’uomo, con gran timore, si aggrappò alla fune che pendeva dalla nave e ritirò i piedi. Come lo fece lo scoglio risalì.

Non spiegandosi nell’immediato l’accaduto tentò di nuovo l’approccio, ma solo con la punta di un piede, continuando a rimanere saldamente aggrappato alla fune con entrambe le braccia. La situazione si ripeté.

Guardò i suoi compagni che, come lui, non si spiegavano cosa fosse questo strano fenomeno. Invitato a riconquistare il ponte della nave, pensò che forse bisognava andare di operazione inversa e tentare di sollevare lo scoglio, che forse scoglio non era.

Prima di procedere si assicurarono che in zona non ci fosse null’altro di simile, ma quel che riuscivano a vedere, solo ad un palmo dai loro nasi, era una coltre di un grigio mai visto che si diradava verso l’alto e mai verso l’orizzonte.

Il rossore del cielo ora si mischiava con il nero della terra, il denso pulviscolo spinto dal vento, lasciava sul suolo il viscido delle piogge relegando il sangue delle nubi dietro un più consono grigio mattone.

Legate le cime i navigatori andarono issando.

Lo scoglio aveva braccia ed aveva gambe.

Recuperato a bordo, lo strano corpo presentava in volto la smorfia che usava rivolgersi attraverso il riflesso dello specchio. Giaceva rigido sul ponte freddo e incenerito, sotto lo sguardo basito dei naviganti che ora non sapevano cosa farsene.

Decisero di lasciarlo in terra e, intanto che decidevano cosa farne, proseguirono la navigazione.

Per dove e per cosa chi lo sa.

 

Le vele gonfie guidavano il veliero spedito e leggero nel mare d’olio nero, ogni uomo impegnato in una diversa faccenda, non badava all’altro né tantomeno al cadavere raccolto e ben lungi dalla decomposizione.

La smorfia su quel volto coperto dalla barba incolta di giorni, forse settimane, si ammorbidì, le labbra si chiusero lentamente fino a non mostrare più i denti ingialliti. Anche la punta del naso si rilasciò tornando nella sua posizione di comodo e le braccia, paralizzate verso l’alto e rigide come ciocchi di legno, caddero d’improvviso da sole colpendo l’uomo in pieno petto. Dalla gola uscì un flebile tentativo di urlo di dolore che nessuno udì.

Allo stesso modo caddero le gambe che invece andarono colpendo con violenza il pavimento. Un altro urlo tentò di uscire dalla sua bocca e ancora nessuno lo udì.

Disteso sul ponte rivolse lo sguardo verso l’alto e, stranito, vide qualcosa di diverso, senza sapersi spiegare cosa. Senza sbattere le palpebre, rimase ad osservare gli inconsueti movimenti virtuosi dalle sfumature ocra e rubino di quel cielo rosso più dinamico che mai.

Intanto il veliero proseguiva il suo cammino planando sul viscido suolo veloce e lineare, percepirne il movimento era impossibile.

Quando l’uomo, ancora disteso, decise di muovere lo sguardo, vide al di là della balaustra del ponte il rosso ed il nero agglomerarsi all’orizzonte. Questo non era mai successo, i due colori erano sempre stati nettamente separati, non si spiegava come e perché tale fenomeno avesse luogo, nella sua testa balzò solo una domanda: “Quanto tempo?”.

Tempo.

Parlò di tempo.

Un qualcosa sottoposto da sempre a leggi specifiche al di là delle quali non può andare, un qualcosa che si conta. Eppure, lui non lo fece mai.

Tutti quei giorni passati a far sempre le stesse cose senza mai accorgersene.

Prigioniero del tempo, incastrato in un loop che non poteva controllare, come avrà fatto ad uscirne? O forse era stato proiettato in quello di qualcun altro? O forse era solo un nuovo loop?

Lentamente sollevò la schiena da terra e si mise seduto, vide il veliero intorno a lui, sopra di lui e sotto di lui. Non vi era dubbio che quella fosse una nuova condizione, eppure i suoi vestiti erano ancora fetidi e sempre gli stessi e la sua barba incolta sempre uguale.

Con gli stessi movimenti flebili si alzò in piedi, osservò il viscido terreno sul quale la nave scivolava via e si incamminò verso la cambusa, ne discese i gradini e ne scrutò ogni angolo. Sembrava alla ricerca di qualcosa.

Nessuno dei naviganti, tutti intenti nelle loro faccende, si accorse ancora di lui.

Giunse in una stanza che gli sembrò familiare. L’oblò grande d’ottone dava sull’esterno, di fianco al letto vi era un comodino, lo aprì, al suo interno era celato un piccolo frigorifero con qualche bottiglietta di sidro, dalla parte opposta vi era invece un lavabo sormontato da un specchio.

Eccolo. Lo aveva trovato.

Lesto si diresse verso di esso, posò le mani sul bordo del lavabo e vi ci si specchiò. Procedette quindi a strofinarsi con forza la faccia con i palmi delle mani, i suoi occhi si tinsero di rosso come un tempo. Si regalò una smorfia come un tempo e poi si distese sul letto ad osservare il soffitto. Non vi erano macchie, la vernice era intatta e non vi era vento, né polvere sui vetri dell’oblò né sul suo corpo.

Osservando la perfezione del soffitto si addormentò.

Il giorno seguente si svegliò disteso sul ponte del veliero.

Di nuovo.

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