La lista dei desideri

 

Gli elefanti. Salvador Dalì, 1948

Con l’arrivo dell’anno nuovo, arrivò per Jane e Mary anche la possibilità di poter dare senso ad un progetto rimasto in un cantuccio per molto tempo.

Finalmente si andava quantificando la possibilità di dare una svolta alle loro vite,  potevano iniziare a prefissare scadenze che avrebbero diligentemente rispettato e stilare una lista delle cose da fare da appendere al frigorifero. Ne avrebbero spuntato tutte le voci, dalla prima all’ultima, esattamente in quell’ordine e nel tempo prestabilito.

Volevano che tutto fosse perfetto, organizzato a puntino, non avrebbero lasciato spazio ad eventuali errori; avevano desiderato quel momento così a lungo che anche un solo passo indietro sarebbe stato per loro segno di fallimento.

L’eccitazione era visibile a fior di pelle. I peli sulle loro braccia, dritti come canne di bambù, davano un certo prurito, ma cosa importava? L’attesa fu così lunga e laboriosa che il tempo ad un certo punto sembrò loro non voler più scorrere in avanti, anzi, non scorreva affatto. Le forze venivano meno e credevano che tutto quel sacrificio sarebbe stato vano, che mai ce l’avrebbero fatta, che stavano sognando e che sogno sarebbe rimasto per l’eternità.

“Ce la faremo!”, esclamava Jane a petto in fuori.

“Ce la faremo?”, chiedeva Mary con sfiducia.

“Ce la dobbiamo fare!”, si ripetevano l’un l’altra.

La parte più difficile sarebbe stata spuntare la prima voce della lista, una volta fatto avrebbero potuto stabilire con certezza quando questa avrebbe trovato risoluzione e da lì in poi sarebbe stato tutto in discesa.

In pochi giorni la lista venne appesa su quel microcosmo museale che era l’anta del loro frigorifero, in bellavista, redatta su di un cartoncino arancione perché spiccasse tra tutte le foto, i menù di ristoranti mai chiamati, le cartoline di auguri, i disegni dei nipotini e i bigliettini dei cioccolatini.

Passò un intero mese e la lista era ancora intatta.

 

Poi il tempo maturò.

Si svegliarono di buon ora, aprirono gli occhi allo stesso tempo, si stiracchiarono all’unisono e, ancora avvolte dal tepore delle coperte, si scambiarono uno sguardo con l’occhio ancora un po’ cadente. Si sorrisero e si alzarono senza nemmeno dirsi buongiorno, il sorriso bastò, sapevano cosa stava per accadere e la forza di utilizzare anche le corde vocali, oltre che ai muscoli necessari per trascinarsi giù dal letto, non la trovarono.

Girovagando a piedi nudi per la cucina con in mano la tazza di caffè bollente, volsero lo sguardo verso il frigorifero fingendo di ignorare quel foglio volutamente appariscente.

Jane si appoggiò ad esso con la spalla sinistra accavallando i piedi. Osservava Mary fare su e giù da uno stipite all’altro: “Ma cosa diavolo vai cercando?”.

“Non ne ho idea”.

“Allora fermati e beviti quel caffè, prima che diventi freddo!”.

Mary spinse via con delicatezza Jane per poter aprire il frigo, prese il cartone del latte e ne versò il quantitativo di un paio di cucchiai nel caffè.

“Ma quando mai?”, sogghignò Jane.

“Perché?”, rispose con superficialità.

“Perché a te il latte nel caffè non è mai piaciuto!”.

“Ora forse sì”.

Jane la fissò sforzandosi di non muovere le palpebre, voleva proprio vedere se se lo beveva.

Mary, per non dargliela vinta, fece un piccolissimo sorso seguito da un’espressione di disgusto che le venne difficile nascondere: “Ok, va bene, è vero. – versò il caffè nel lavandino – È che non so nemmeno io cosa voglio… È che… Oh, non ne ho la più pallida idea!”.

Volse a Jane uno sguardo affranto, un’espressione che non le si addiceva affatto.

Se non fosse che Jane la conosceva come le sue tasche, avrebbe potuto affermare che era la donna più triste ed affranta mai incontrata.

Ma Mary in realtà era una donna gioiosa e piena di vita, era l’ottimismo fatto persona, quell’espressione sul suo viso era così fuori luogo da sembrare quasi un pessimo fotomontaggio.

Jane posò il suo caffè sul bancone della cucina, strinse Mary in un abbraccio e le baciò la fronte con profondo affetto.

“Che cosa mi sta succedendo stamattina?”.

Continuando a cingerla con il braccio la voltò verso il frigorifero: “Non sarà mica per questa qui?”, chiese indicando la lista.

Mary si divincolò dall’abbraccio e ricominciò a piroettare per la cucina.

“Ci stai ripensando?”.

Ella arrestò bruscamente il trottolare compulsivo, stendendo le ginocchia e allungando all’insù le dita dei piedi, stando in equilibrio sui talloni. Ci stava ripensando per davvero, ma non voleva farlo. Avevano impiegato così tanto tempo per prendere quella decisione e ora che tutto stava giungendo ad una concreta realizzazione lei ci stava ripensando. Non poteva farlo, non poteva! Avrebbe deluso se stessa e soprattutto avrebbe deluso Jane, che ci credeva almeno tanto quanto lei.

Iniziò a mordersi le unghie con altrettanta compulsività.

Jane l’aveva vista così agitata solo due volte da quando si conoscevano. E si conoscevano da un’eternità: il giorno in cui si laureò e il giorno delle loro nozze. La prima perché era convinta di non meritare tanta lode e la seconda perché… beh, pare logico il perché, “Anche il bouquet è in grado di emozionarsi ad un matrimonio!”, disse proprio così, l’attimo prima di dirigersi verso l’altare nel suo bel vestito di seta beige.

“Ci stai ripensando?”, chiese di nuovo.

“No, non potrei. – rispose celando malamente  l’incertezza – Ci stiamo lavorando da tanto tempo… avere un ripensamento sarebbe come tradirti”.

“Non esagerare adesso. Possiamo sempre rimandare, questo progetto è stato una nostra scelta e possiamo sempre scegliere di non portarlo a termine”, le carezzò il viso cercando il suo sorriso.

Mary la guardò allo stesso modo di un cucciolo mortificato: “Che ne sarà di noi e dei nostri progetti se rinunciamo? Non possiamo, dobbiamo andare avanti. È per il nostro stesso bene, giusto? Dobbiamo andare avanti!”.

Non sapeva da dove uscisse questa sua repentina paura, ma l’idea malsana di un tragico fallimento si stava impossessando di lei.

Così quella mattina si ritrovò a tramutarsi da personificazione incontrastata di dorato ottimismo a rappresentante improvvisata di nera paura.

Iniziò ad avere pensieri che non le appartenevano, finora non aveva mai rimuginato sull’idea di un eventuale intoppo, di un ostacolo non previsto. E soprattutto la spaventava la prima voce della lista. Era la più pericolosa, quella che se poi tutto il resto fosse andato in malora sarebbero finite in malora anche loro due.

Almeno così la stava pensando in quel momento, vedeva quel punto della lista come punto di non ritorno, ma non lo era e non era vero che non ci sarebbe stata soluzione.

Anche a Jane incuteva un certo brivido e non glielo nascondeva, ma un minimo di coraggio ci voleva per poter realizzare la svolta della vita che tanto sognavano. Il trucco, secondo lei, stava nel focalizzare l’attenzione sul senno di poi, quello lieto ovviamente.

Mary intanto si versò un'altra tazza di caffè confermando la sua decisione: “Lo sai che ho sempre paura quando qualcosa di nuovo si affaccia nelle nostre vite. Guardo quella lista da un mese ormai e non la leggo, non l’ho mai letta, perché la so a memoria. Ma ogni volta che la guardo l’unica cosa che vedo è la prima voce, solo quella. Tutte le altre scompaiono. È come se le vedessi muoversi per andarsi a nascondere dietro di essa”.

Con calma ritrovata soffiò sulla tazza e bevve.

Per Jane era vero il contrario, lei evitava di focalizzare l’attenzione sul primo punto della lista e leggeva invece tutti gli altri, più volte.

Ebbe un’epifania. Prese un pezzo di carta e lo incollò sul primo punto della lista.

“Adesso puoi leggere solo gli altri. Sono sicura che non si nasconderanno più”.

Mary si avvicinò al frigorifero e posò la testa sulla spalla di Jane: “Oh sì, questo è il mio preferito!”, esclamò con gioia indicando il penultimo punto della lista.

“Quella sarà la parte più divertente!”, aggiunse Jane.

Quello stesso giorno diedero inizio al loro piano e in serata il primo punto era stato spuntato: “Bene, ora si inizia a fare sul serio!”.

Non stavano più nella pelle, in preda all’adrenalina, passarono al secondo punto della lista assemblando scatoloni e riempiendoli di tutte le loro cose. Parte di essi sarebbero andati ad un’associazione di beneficenza, altri al mercatino per poter racimolare un po’ di liquidi.

Il terzo punto della lista andò via da sé e in men che non si dica arrivò il penultimo, il loro preferito.

 

Due giorni dopo aver depennato il primo punto, Mary e Jane si ritrovarono con le valigie aperte sul letto, in attesa di essere riempite.

Il solo gesto di mettere le loro cose in una valigia dava l’ebbrezza del viaggio che cominciava, dell’avventura che andava svelandosi. La valigia era il simbolo del cambiamento che stava per avvenire e in quel momento quel cambiamento era per loro il lasciarsi alle spalle le lingue velenose, per andare incontro ad una nuova vita, alla ricerca dell’antidoto a quel veleno.

Perché doveva esserci per forza un antidoto al disagio e al pregiudizio, perché se così non fosse allora voleva dire che tutte le terre erano avvelenate e che quindi la loro vita era tutta un’illusione, era la loro immaginazione che splendida zoppicava verso un futuro immaginario.

Era giunto il tempo di non avere più certi pensieri, i giochi erano fatti e il momento rituale non poteva essere rovinato.

Misero in valigia le poche cose che non avevano donato o venduto, l’armadio era quasi del tutto vuoto, ma c’era ancora una scatola sul ripiano più alto.

“Ehi, guarda! – disse Jane – A quanto pare abbiamo dimenticato qualcosa”.

“Oh no, ci tocca ritornare da Fobio?”.

Si riferiva, con gran noia, al proprietario del mercatino dell’usato dove avevano venduto parte delle loro cose. In realtà si chiamava Fabio, ma Mary lo ribattezzò Fobio non appena lo vide. Nello sguardo di quell’uomo vi erano talmente tanti pregiudizi da non riuscirne a vedere il colore dell’iride e Mary lo trovava riprovevolmente fobico.

“No, non credo”.

Jane aveva aperto la scatola ed era certa che Mary non se ne sarebbe voluta sbarazzare.

“Non ci posso credere! Sembra nuovo!”.

“E ti credo! L’hai indossato una volta sola!”.

Jane si tacque in un dubbio, consapevolmente infondato, che le sfiorò il pensiero e poi, con sarcasmo, continuò: “L’hai indossato una volta sola, vero? Non è che mi sto per ritrovare una serie di mogli delle quali ho ignorato l’esistenza fino a oggi!”.

Mary rise imbarazzata: “Ma che vai pensando? Ovvio che l’ho indossato una volta sola! Dicevo così perché è stato chiuso in questa scatola per anni senza essere mangiato dalle tarme”.

“Forse non gli è piaciuto”.

“Ma se è pura seta cinese!”.

“E magari a loro non piace il cibo cinese”, Jane si tirò gli occhi all’insù con gli indici facendo la linguaccia.

“Ma smettila! Piuttosto, cosa ne facciamo?”.

“Lo portiamo con noi, ovvio”.

Mary non la contraddisse, anche se in cuor suo le sarebbe piaciuto che venisse indossato di nuovo, l’aveva resa tanto felice e avrebbe voluto rendesse altrettanto felice qualcun’altra.

Forse le stava balenando in testa un’idea un po’ sciocca, ma in quel concitato momento non diede molto peso a quel fulmineo pensiero, mise l’abito in valigia e la chiuse con un rapido zip, come a non voler dare corda al ripensamento.

Trascinarono le valigie dal letto fino alla porta d’ingresso. Il tempo era arrivato, stavano guardando per l’ultima volta il loro appartamento. Jane andò verso il frigorifero, fedele custode della loro lista dei desideri, la staccò e la sventolò in segno di vittoria.

“Allora, sei pronta?”.

Mary annuì.

“Bene. – Jane prese una penna dalla borsa e tirò una linea precisa e rimarcata sul penultimo punto – Manca solo l’ultimo!”.

Mary le sorrise con grande eccitazione annuendo compulsivamente.

Aprirono la porta, volsero un ultimo sguardo ai muri, al parquet, al tavolo da pranzo e al frigorifero, uscirono fuori e richiusero la porta dietro di loro. In fondo alle scale vi erano i nuovi proprietari in attesa della consegna delle chiavi.

A Mary scappò una lacrima: “Ve ne prego, amatela tanto quanto l’abbiamo amata noi”.

“Di più”, rispose la giovane coppia. Abbracciati l’un l’altra salirono le scale. Poi la donna, carezzandosi il pancione, si voltò indietro e le ringraziò.

“Saranno felici. La nostra casa farà di loro una famiglia felice”, disse Jane abbracciando Mary.

“Sì, ne sono certa”.

Le due donne salirono in macchina. Le aspettava ora un lungo viaggio verso una nuova terra, un luogo ancora sconosciuto, ma che speravano avrebbe portato loro serenità e fortuna.

“Ricominceremo tutto daccapo?”.

“Sì, sarà meraviglioso”.

Il volto di Jane appariva disteso che quasi non si vedevano più le rughe, le brillavano gli occhi e non riusciva a fare a meno di sorridere.

Abbassarono la capote della macchina, il vento scompigliava loro i capelli e non se ne curavano, quell’aria lavava via dai loro volti tutto il rancore per una vita che avrebbero voluto a tutti i costi essere fiabesca senza poterlo.

Ora sentivano nelle fitte folate del vento una sensazione piacevole e rigenerante. La meta era distante, forse mezza giornata o più, ma non importava, non più.

“Saremo felici?”.

“Sì, lo saremo”.

“Tipo che non dovremo più preoccuparci di tipi come Fobio?”.

“Sì. Saremo felici e libere di essere noi stesse”.

Mary si accucciò sulla spalla di Jane intenta a guidare.

Il viaggio era lungo, ma a loro non importava più nulla.

La lista dei desideri era stata completata.

L’antidoto sarebbe stato trovato.

Commenti

Post popolari in questo blog

Cenere

Sorrow

Lepre in salmì

Come il sole di mezzanotte

Autunno

Filastrocca d'autunno

The Bird Cage

Lo specchio del tempo

Il viaggio

Dell'eterno amore