Sorrow

 

Sorrow. Vincent Van Gogh, 1882

Sono innumerevoli i personaggi illustri che vantano disturbi mentali. Il primo che mi viene in mente è Van Gogh. Egli è uno dei miei pittori preferiti, con la sua meravigliosa arte mi sono avvicinata alla pittura e al suo studio, ho visto i suoi capolavori in giro per il mondo ed ogni volta che mi avvicino ad un suo quadro è un’emozione immensa, estremamente simile alla sindrome di Stendhal.

Ecco, partiamo da qui, la sindrome di Stendhal, un’affezione psico-fisica quasi mitologica, un disturbo mentale (ma temporaneo) che colpisce chi guarda un’opera d’arte in grado di stimolare le sinapsi nel modo giusto.

Ero ancora una bambina, eppure, quando visitai per la prima volta gli Uffizi, ebbi un sentimento molto simile dinanzi la Medusa di Caravaggio.

Ebbi le palpitazioni e il fiato corto, rimasi a guardare quel dipinto per interminabili minuti, mentre mia madre scappò via perché lo trovò inquietante. Io insistetti a rimanere lì, davanti ad esso, rapita, immobile, mi sentivo come se lo sguardo di Medusa mi avesse pietrificata per davvero. Me ne staccai solo dopo lungo tempo e con immensa difficoltà.

Non provai più quel sentimento per nessuna opera d’arte, se non una poetica emozione davanti al sensuale marmo di Canova (quasi erotico oserei dire) e le pitture di Van Gogh.

Sulle sue opere e sulle ragioni di esse mi soffermai per quasi tutto il liceo.

Perché quelle opere sembravano così strazianti, così coinvolgenti, così… personali?

 

Una cosa buona i disturbi mentali la fanno: ti donano sensibilità (fin troppa!). Per chiunque un fiore è un fiore, un colore è un colore, non per noi. Per noi in ogni fiore, in ogni colore, in ogni oggetto inanimato che ci passa per le mani, in ogni raggio di luce che attraversa i nostri occhi, noi percepiamo il bene ed il male. Soprattutto per noi stessi. E questa non vuol essere un’accezione egocentrica. ‘Soprattutto per noi stessi’ per noi significa mantenere alta la guardia, per non essere feriti da checchessia o chicchessia, perché l’autodifesa è la prima cosa che, in certi casi, ci tiene in vita.

Ogni cosa in grado di suscitare un’emozione o un ricordo può farci bene come può farci male. Ecco perché tendiamo a ponderare e misurare praticamente tutto. Eppure questo nostro atteggiamento scatena nel prossimo una risposta di scherno.

I disturbi mentali sono un tabù, un’ilarità, un’invenzione per narcisisti.

Non viene percepito né tantomeno compreso che ogni fatto, come anche ogni esperienza, segna la nostra pelle allo stesso modo di un tatuaggio, di una cicatrice da ustione. Le parole, gli sguardi, gli ammiccamenti, se mal fatti o mal interpretati possono ledere come una spada e lasciare il segno.

E ogni volta che il nostro sguardo cadrà, anche solo accidentalmente, su quel segno, ci si ricorderà di quel particolare episodio, facendo riaffiorare tutto il dolore che ne scaturì. E non fa niente che poi non ci pensiamo più, perché quando meno ce lo aspettiamo quel dolore torna, così, d’improvviso, senza apparente motivo.

Non accade mai quando già si sta male per la qualunque, perché in quel caso saremmo preparati, avremmo gli scudi alzati, perché lo sentiremmo arrivare e non ci faremmo cogliere impreparati.

No, non va così. Non va mai così. Quel dolore torna sempre quando si sta bene, quando meno ce lo aspettiamo, quando finalmente dopo giorni di oscura perdizione si ritrova il coraggio di guardare la propria immagine riflessa nello specchio, quando di sfuggita ci scappa un sorriso o un pensiero giocondo. Quelli sono i momenti in cui siamo più vulnerabili, sono i momenti in cui i nostri scudi sono a riposo e siamo esposti alla loro mercé.

 

I disturbi mentali sanno essere subdoli, sornioni, muta forma di innata bravura. Sono un incantesimo di rara eleganza, ci prendono con leggiadria e tenerezza, ci convincono di essere la parte migliore di noi e della quale non possiamo fare a meno.

Inducono il sonno della ragione perché possano far del nostro corpo il loro parco giochi, stuzzicano le nostre voglie e le nostre rabbie per prendersi gioco di noi al meglio delle loro possibilità, scarabocchiano i nostri sogni perché possiamo pensare che solo ciò che non ci appartiene sia cosa buona e giusta.

E quando poi hanno finito di rivoltarci come un calzino, ci lasciano esanimi e affranti, esausti e immotivati, incapaci di rialzarci contando sulle nostre forze, perché si sono portate via anche quelle. Soprattutto quelle.

Per molta gente chi soffre di un qualsiasi disturbo mentale non è altro che un’equazione sballata e senza senso. Un modo come un altro per incanalare, etichettare e addomesticare dei fattori inesistenti, delle leggende, scusanti tossiche per sfuggire alla quotidianità e alle responsabilità.

Impariamo presto, da bambini, a indossare una maschera di cera che vestiremo per tutta la vita, per poter essere agli occhi degli altri come vogliono loro. Indossiamo quella maschera per non far trapelare il nostro vero io, il nostro vero umore, per non far vedere il volto segnato dal dolore, per sottometterci all’indifferenza altrui.

Ma, come dicevo, quella maschera è fatta di cera ed è pronta a sciogliersi al primo calore. Al calore di uno sguardo amico, di un abbraccio, di una parola o di un sorriso fatto al momento giusto.

Perché in verità non ci vuole poi molto per aiutare chi si è perduto a ritrovare il sentiero di mattoni dorati. Basta una cosa – al giorno d’oggi assai rara – chiamata gentilezza, per aiutare qualcuno a ritrovare il giusto equilibrio. Basta un accenno positivo, un sorriso vagamente sincero, una pacca sulla spalla, un minuto di compagnia, una fugace chiacchiera, un attimo di pazienza, un orecchio disposto a sacrificarsi per un tempo necessario.

 

Van Gogh ebbe il dono di rappresentare tutti i suoi stati d’animo attraverso la pittura. I suoi colori accesi che sembrano a volte voler violentare le sinapsi di chi osserva, la cupezza delle opere olandesi, il bagliore dei gialli e dei blu francesi, le nature morte, le scene di vita quotidiana, i ritratti di amici e non… E poi, Sien. Vincent che voleva salvarla, la famiglia che lo costrinse ad abbandonarla. Eppure egli era convinto della loro simbiosi, entrambi emarginati, entrambi peccatori.

Essi erano uno l’immagine riflessa dell’altro, non potevano per questa estrema somiglianza completarsi a vicenda ed i continui litigi aiutarono il distacco. Vincent lo trovò umiliante, ma al contempo ne comprese la necessità.

Non si può salvare tutti, soprattutto quando si tratta di salvare se stessi.

Sien fu una parentesi importante, perché dal tempo speso con e per lei nacque il Van Gogh che oggi ammiriamo e stimiamo tutti.

Ma ella, rimane ancora la rappresentazione del dolore e del disagio fisico e mentale che si prova in una vita disadattata e fatta di stenti, dove trovare una via d’uscita può sembrare impossibile. Nel suo ritratto lo si percepisce, come si percepisce anche il sentimento del pittore nei suoi confronti.

Il corpo smunto, il seno cadente, i capelli spettinati, il tratto lineare e deciso, le ombreggiature appena accennate, la presenza di una flora secca e povera intorno alla donna ed il moncone di legno sulla quale ella è seduta completamente nuda; comunicano perfettamente chi ella sia e che cosa provi, e allo stesso modo ci comunica che cosa vede Vincent e che cosa egli prova per lei.

È il ritratto di un fallimento bilaterale: quello della donna nel recuperare le sue forze e la sua vita da un lato, quello dell’uomo che tentò di aiutarla e salvarla dall’altro.

 

Quando nella nostra mente qualcosa si spezza, dando vita a quei mostri che hanno nomi ben precisi ma che temiamo di nominare, succede anche qualcos’altro, ci sentiamo d’improvviso catapultati in un mondo a testa in giù, dove ciò che è bello non lo è più e ciò che è buono lo è solo per gli altri, per quelli che non stanno a testa in giù.

Si inizia a sentire il rifiuto della gretta società, ci si sente fallire come esseri viventi, abbiamo la sensazione di non essere abbastanza, di non stare contribuendo alla crescita e allo sviluppo della società stessa. Sentiamo il nostro fallimento percependo invece quello degli altri come un gran successo.

Ogni cosa che tocchiamo diviene cenere, come un re Mida a testa in giù. E la maschera che indossiamo e che a volte sentiamo vestire un po’ stretta, non riusciamo a toglierla nemmeno quando siamo nel nostro mondo, perché ci mancherebbe il conforto di quella faccia amica che sappiamo bene essere noi stessi, ma che fingiamo sia qualcun altro, qualcuno che ci conosce bene e che sa come prenderci.

Ci si sveglia la mattina e la prima cosa che si pensa è: “Come sto oggi?”.

E ci si auto-analizza: “Sto abbastanza bene da scendere giù dal letto e affrontare la giornata senza infliggermi dolori e pentimenti? Avrò la forza di mostrare un sorriso, per quanto forzato e stiracchiato, perché la gente non mi additi?”.

Tutto ciò può sembrare patetico, esagerato, ma provate a fare una cosa, la prossima volta che incontrate qualcuno e gli chiederete ‘come stai?’, guardatelo dritto negli occhi, perché la risposta sincera a quella domanda è nascosta là dentro.

A recitare siamo bravi tutti. Non saremo tutti dei premi Oscar, ma tutti quanti almeno una volta nella vita abbiamo detto una bugia, e nella maggior parte dei casi l’abbiamo detta a qualcuno molto vicino a noi che o non se ne sarà mai reso conto (premio Oscar per noi!) o ha fatto finta di crederci (premio Oscar per loro!).

Come la si mette mette c’è sempre chi vince e chi perde.

 

Allora forse è il caso di porsi qualche quesito e di darsi anche qualche risposta:

- Sono i disturbi mentali un tabù? Sì, ma non dovrebbero.

- Se ne deve parlare? Sì, perché anche chi non ne soffre dovrebbe esserne a conoscenza. Solo così si può aiutare chi ne soffre.

- Ci si può scherzare sopra? Sì, perché l’ironia è una buona cura, ma bisogna conoscere la sottile linea di confine tra ironia e offesa.

 

Negli anni ’80 in TV andava una pubblicità di informazione sull’AIDS: “Se lo conosci lo eviti. Se lo conosci non ti uccide”. La stessa equazione potrebbe valere anche per i disturbi mentali. Non sempre sono evitabili, ma se li si conoscono si può evitare di rimarne uccisi; perché un altro aspetto che viene molto spesso ignorato dalla società è l’alto rischio di suicidio che essi apportano a chi ne è affetto.

La soluzione finale.

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