Nina

 

Camera vicino al mare. Edward Hopper, 1951

Nina aveva cinque anni quando per la prima volta vide la neve.

Prima di allora la poteva solo immaginare, di solito i piccoli fiocchi si scioglievano a mezz’aria. Ma quella notte, la temperatura scese al punto giusto e nevicò.

Nina si svegliò affacciandosi su di una distesa bianca e soffice. Fu suo padre a tirarla giù dal letto di buon’ora, non voleva che sua figlia si perdesse lo spettacolo, di quei luoghi più unico che raro; presto le temperature sarebbero risalite e la neve si sarebbe sciolta.

La casa di Nina era in periferia e sul retro vi erano molte campagne che sarebbero presto sparite, in nome del progresso e della crescita demografica. Ogni domenica, accompagnata dal suo papà, aveva l’abitudine di andare a giocare proprio in quelle campagne, tra le pietre dei muretti a secco e l’erba alta.

Il suo gioco preferito era investigare sugli insetti che migravano di fiore in fiore, raccogliere papaveri e margherite, osservarne i colori e le corolle, e poi farne un bel mazzetto da portare in dono a sua madre.

Ogni giorno, dalla finestra sul retro, entrava dentro casa un buon odore di erba fresca e camomilla, mentre dal balcone del salotto si vedeva il campo da bocce di terra battuta e se ne udiva il chiasso.

Quando quell’anno arrivò la neve, essa ricoprì tutto. Sparirono l’erba ed i papaveri, seppellì i muretti a secco ed il campo da bocce.

Nina non vedeva l’ora di andare a giocare, doveva assolutamente costruire un pupazzo di neve, non solo perché desiderava farlo da sempre, ma anche perché aveva la sensazione che sarebbe stato l’unico di tutta la sua vita.

Eccitata dall’idea, Nina aveva già aperto la porta d’ingresso e si stava dirigendo giù per le scale, incurante delle temperature sotto zero. Sua madre la placcò appena in tempo e la bardò di cappotto, cappello, sciarpa e muffole.

“Ma, mamma! Così sembro un astronauta!”.

Povera Nina, com’era buffa. Le si vedevano solo gli occhi e a malapena riusciva a muovere gambe e braccia, senza poter piegare le giunture.

A mo’ di orso di pezza si incamminò verso il campo da bocce e, man mano che il pupazzo prendeva forma, il terreno svelava la sua natura. Lo strato di neve si rivelò più sottile di quello che sembrava, cosicché quell’enorme pupazzo iniziò a somigliare ad un enorme barattolo di crema Alba.

Solo quando fu completamente soddisfatta della sua opera, Nina tornò a casa portando in dono a sua madre una piccola palla di neve al posto dei soliti fiori.

Passò il resto della giornata affacciata alla finestra, osservando il grigiore del cielo che mutava forma col mutare del vento. Quel giorno, altra neve venne giù, un po’ a singhiozzo.

Il pupazzo resistette fino a quando il campo da bocce riemerse del tutto. Si sciolse piano piano, scavando nella terra battuta una pozzanghera di melma nella quale galleggiavano i tronchetti di legno che erano stati le sue braccia.

Come se nulla fosse mai accaduto, al riemergere timido del sole la vita tornò ad essere quella di prima, riaprirono le scuole, ritornarono i papaveri e gli anziani con le loro bocce. E come il cielo si anneriva di rabbia, Nina fuggiva alla finestra sperando in altra neve.

 

Nina aveva tredici anni quando per la prima volta si trovò in manicomio.

Seduta su di una seggiola di legno scricchiolante, assieme ad una decina di perfetti sconosciuti della sua stessa età, intorno ad un grande tavolo vecchio e marrone posto al centro di una piccola stanza, al primo piano di un antico edificio i cui gradini erano talmente alti da sembrarne tre. Essa era spoglia e buia, aveva le pareti un po’ scrostate e c’era odore di umidità.

Sul grande tavolo vecchio e marrone, una donna opulenta di mezza età aveva disteso un cartoncino bianco a mo’ di tovaglia. Ella pose quindi nel suo mezzo un mucchietto di pennarelli colorati, quelli con la punta grossa che ti costringono a scrivere a caratteri cubitali, altrimenti viene fuori un pastrocchio.

Tutti i presenti, sotto l’occhio vigile della donna opulenta, passarono per diversi argomenti votati alla futilità, accompagnati da un gran vociare e psicotiche risate. Nina rimase in silenzio, a braccia conserte, seduta immobile sulla seggiola perché non scricchiolasse, ad ascoltare, infastidita dal volume delle voci e da quelle risate un po’ forzate.

“Prendete un pennarello e scrivete sul bristol cosa pensate di questo incontro”, sentenziò d’un tratto la donna di mezza età.

Nina vide i ragazzi affannarsi tutti assieme sullo sproporzionato cartoncino, contendendosi i pennarelli. Lei no. Lei rimase ferma dov’era. Attese che tutti gli sguardi, incluso quello della donna di mezza età, fossero focalizzati sul bristol per decifrarne il contenuto, prese il pennarello più vicino a sé e, con gran rapidità, scrisse MANICOMIO.

Perché era quello che le sembrava. Tante persone a lei estranee, noiose e rumorose, ciarlavano in maniera disordinata, senza seguire un filo logico. Per Nina era importante avere un filo da seguire per non sentirsi come Arianna nel labirinto. Non riusciva a comprendere come le persone potessero infilare un argomento dietro l’altro senza mai concluderne uno. E allo stesso modo non capiva perché fosse così necessario per queste persone parlare a voce talmente alta da far quasi vibrare i vetri delle finestre.

Nina si sentiva del tutto fuori luogo, non apparteneva a quel gruppo e, a dirla tutta, non ci teneva proprio ad appartenerci né tantomeno a provare ad appartenerci. Ci andò perché costretta, perché gli adulti la pensavano così, un modo come altri per incoraggiare lo spirito di socializzazione e adeguamento al genere umano.

Ma a Nina quella teoria andava stretta, a lei non interessava far amicizia in quel modo, a lei piaceva la casualità, scegliere ed essere scelta perché così disponeva la lotteria del fato e non la legge della comunità.

Il giorno dopo non avrebbe più ricordato un singolo volto e nemmeno alcun nome, incluso quello della donna opulenta di mezza età.

Poco prima di andar via, il grande bristol iniziò a roteare come impazzito sul vecchio tavolo, fino a quando uno di loro notò la scritta di Nina: “Chi ha scritto MANICOMIO?”, urlò ridendo.

Nina non si scompose, nel mentre che tutti si guardavano l’un l’altro alla ricerca del ‘colpevole’.

E mai lo seppero.

Ma a furia di guardarsi l’un l’altro il perché di quell’affermazione lo trovarono da soli, una volta smesso di ridere.

E Nina ne uscì soddisfatta.

Non tornò più a quegli incontri noiosi e rumorosi, inutile stalla di blateranti.

Anche quando sua madre glielo chiese, lei rispose che preferiva continuare a passare l’inverno in attesa della neve.

 

Nina aveva sedici anni quando si innamorò per la prima volta.

Fu come essere investita da un treno, non aveva mai sentito il suo cuore palpitare così forte che quasi le schizzava via dal petto, non aveva mai sentito tanto imbarazzo come quella volta che incrociò per caso il suo sguardo.

Nina non aveva mai balbettato in vita sua e non aveva mai nemmeno sentito tutto quel freddo, neppure l’inverno in cui nevicò.

Eppure, più si rannicchiava più sentiva freddo, più si nascondeva più veniva vista. Comandava al suo cuore di smetterla, gli diceva che la metteva a disagio e le faceva girare la testa, ma il cuore non la ascoltava ed egli prendeva a battere ancora più forte ogni qual volta i loro sguardi si incrociavano.

“Giuro che non sono io! Non lo faccio mica apposta!”.

Venne il giorno in cui una mano le si parò dinanzi invitandola a ballare. Nina rifiutò perché non sapeva ballare, ma la lotteria del fato la convinse e la mano le giurò che le avrebbe insegnato.

Come le fronde dei salici al suono del vento, come la terra con il suo moto ininterrotto, come la pioggia che scroscia e scivola giù tra i ciottoli per farsi fiume, così Nina si faceva portare stringendo quella mano nella sua, sorridendo e palpitando ad ogni passo come fosse il primo.

Ora agli sguardi si aggiunse la carezza, poi l’abbraccio, poi il respiro ed infine il bacio. Nina si sentì svenire, d’improvviso non sentì più freddo, esso divenne una coperta calda e confortevole, custode di segreti e bugie.

Nina non pensò più alla neve, ma la coperta un giorno sparì, lasciando evadere tutti i segreti e tutte le bugie. Tornò il freddo nelle sue ossa che il suo cuore quasi si fermò.

Si pentì di essersi dimenticata della neve e, disperata camminava con la testa all’insù in cerca di perdono e redenzione, giurando che mai l’avrebbe più scordata se ora l’avesse rivista scendere sul suo volto.

 

Nina ora ha vent’anni e la neve non si fece mai più vedere.

Ha cambiato casa e città, lotteria e comunità, ma ricorda ancora i papaveri e le margherite con serena nostalgia. Su di lei adesso splende sempre il sole, il manicomio era un ricordo lontano inghiottito dal buco nero dell’inutilità, così come quel ballo che fu di sguardo, carezza, abbraccio, respiro e bacio.

Però a volte ci ripensa e prova a ricordare il calore della coperta senza ad ogni modo rimpiangerla, lasciando tutto dov’era e dove lei aveva deciso che doveva rimanere, perché sentiva che non avrebbe dovuto più far parte di lei.

Nina è diventata donna, cresce alta e fiera al passo con i tempi del suo cuore. Non dimentica e non rimpiange e ogni inverno aspetta ancora la neve. Ma davanti a sé c’è una lunga strada che costeggia il mare.

Nina la percorrerà tutta, un piede avanti all’altro, contemplando il mare, baciata dal sole, tenuta per mano dal padre che le fece conoscere la neve, dalla madre che le fece capire la gente, dalla fierezza di essere cresciuta per diritto e per il quale ora ha davanti a sé una lunga strada che costeggia il mare.

Commenti

  1. Bel racconto! Mi ha fatto commuovere

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    1. Grazie mille del commento. Mi fa piacere che ti sia piaciuto e che abbia suscitato in te certe emozioni.

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