11 settembre

© Valentina Doria, 2019


Da Liberty Island il panorama era mozzafiato. I grattacieli di Manhattan si scagliavano contro un cielo terso, azzurro ciano. Una lingua di terra li lambiva alla base e le loro vette creavano un disegno geometrico quasi omogeneo.

Già, omogeneo, perché non vi erano più le Torri Gemelle a rompere quella simmetria.

Dall’isola si notavano subito, erano i grattacieli più alti di Manhattan che delimitavano il lato sinistro del panorama, mentre a destra l’occhio si perdeva sino a dove il fiume si ricongiunge con l’oceano.

La loro assenza si avverte, soprattutto per chi era abituato ad un’immagine da cartolina ben diversa. Per quanto ci si sforzi a rimetterle al loro posto con l’immaginazione, non è proprio la stessa cosa.

Ricordo il volto imbrunito di mio marito nel mentre che fissavamo la lingua di terra all’orizzonte, il suo sguardo impegnato a fissare il punto esatto dove esse sorgevano: “Erano proprio lì”, mi disse.

Come noi altre decine di persone guardavano nella stessa direzione, per gli stessi motivi, ed io mi chiedevo se anche i loro pensieri fossero in quel momento gli stessi.

Quel lontano undici settembre mio marito c’era, io no. Io ero in Italia, sotto la doccia per l’esattezza. Arrivò una telefonata di mio cugino che ci sconvolse, ricordo quanto tutto fosse tangibile e surreale allo stesso tempo. Attraverso il televisore si percepiva a fior di pelle il dramma che si stava andando a consumare. Ricordo le urla, la paura nei loro occhi, le lacrime che si impastavano con i polveroni di terra e cemento che ricoprirono l’intera città.

 

World Trade Center. Il centro del mondo, simbolo occidentale di progresso e modernità era stato raso al suolo.

Diveniva ora memoria dell’uomo capace di ponderare e pianificare la sua stessa fine; ritratto di un uomo in grado di odiare, distruggere e rinascere dalle sue stesse ceneri; volto di un Paese che non perdona con leggerezza, duro a morire, che si nutre di ricordi e che su di essi getta nuove radici per il suo futuro.

Quel giorno, come fu per l’Angelo Caduto, si aprì una voragine nera e profonda nei cuori dei newyorkesi, degli americani, dell’occidente tutto.

Dal fondo di quella voragine hanno saputo guardare in alto, per rinascere e ricostruire.

Due fontane hanno preso il posto delle Torri Gemelle e delle loro fondamenta. Otto lati di granito nero, nel quale sono resi immortali tutti i nomi di coloro che caddero, per disgrazia o per servizio, lambiscono le due grandi fontane nelle quali l’acqua sgorga dal perimetro verso l’interno, dalle vittime verso il centro della terra. Un involvere perpetuo di acqua, fonte inestimabile di vita, che ritorna a sé stessa simboleggiando il cerchio della vita stessa.

Nel tragitto che conduceva me e mio marito verso il World Trade Center, sentivo la pelle d’oca ricoprire il mio corpo, un costante ed impercettibile tremore mi accompagnò sino a lì e quando quell’immenso monumento si rivelò dinanzi a me, sentì una frattura al cuore. Migliaia di nomi, nel freddo marmo parato a lutto, rose e fiori per compleanni e ricorrenze nel accentuavano la scurità.

 

Ecco l’ennesima tragedia da non dimenticare, l’ennesimo dramma da tramandare perché l’umanità possa avere sempre coscienza dei fiumi di lacrime che inondarono quelle strade e che ora sono raccolte in due bellissime fontane.

Ecco la memoria di una vita che è solo in prestito e della sua precarietà, della sua predisposizione alla dissolvenza in dolore e compianto di chi resta.

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